Napoli: Onegin e la marmellata di Barrie Kosky
Durante i primi mesi di pandemia uscì su OperaVision una meravigliosa produzione del 2016 dell’Onegin di Čajkovskij firmata Komische Oper Berlin, con una straordinaria Asmik Grigorian come Tat’jana e uno spettacolo estremamente riuscito dell’allora Sovrintendente, Barrie Kosky. Questo giugno, a oltre sei anni da quella produzione, questo spettacolo è finalmente approdato in Italia, al Teatro San Carlo di Napoli, dove ho modo di assistere alla recita di sabato 18.
Tutta la vicenda viene ambientata da Kosky in un boschetto, il giardino di Casa Larin. Questo prato, abilmente realizzato dalla scenografa Rebecca Ringst, si anima a più riprese di variopinti costumi dal sapore inglese, ideati da Klaus Bruns. Tutta la messa in scena, in realtà, respira un’aria un po’ british e non a caso. L’Inghilterra ispira i personaggi dell’opera, tanto nel libretto quanto nella fonte, il romanzo di Puškin. I riferimenti a Byron e Richardson non sono però un vezzo intellettuale. In quel periodo un’esterofilia galoppante animava i salotti pietroburghesi e Francia, Germania e Inghilterra divengono quasi terre mitologiche, in cui ricchi, intellettuali e ricchi intellettuali si ritirano per incontrare l’élite culturale europea. Questo dato appare particolarmente importante nell’interpretare l’Onegin: quando l’elegante dandy di città, formatosi all’estero e rinchiuso nel suo stesso stereotipo, si palesa a casa dei Larin, il colpo di fulmine di Tat’jana, fino a quel momento nutritasi di soli romanzi, è inevitabile. Tat’jana donerà ad Onegin il suo primo amore, la sua innocenza, ricevendo dal giovane un rifiuto con tanto di predica che vorrebbe essere sprezzante ma non riesce fino in fondo. Quest’innocenza Kosky la chiude in un barattolo di marmellata, vascello deputato ad accogliere la celebre lettera che, febbrilmente, la fanciulla scriverà in una notte insonne e farà recapitare al suo Evgenij. Questa del vasetto di marmellata è un’intuizione brillante: all’apertura del sipario, madre e balia racconteranno la loro infanzia proprio mentre preparano marmellata e nel leccarsi le dita ritornano agli anni passati, alla propria innocenza, agli amori e ai sogni poi delusi dalla vita. La marmellata tornerà poi nel terzo atto, quando Onegin riporterà il medesimo barattolo a Tat’jana nel tentativo di ravvivare le braci di quell’amore respinto. Quando Tat’jana strappa i frammenti della lettera e li getta in faccia ad Onegin, questi perde il suo unico appiglio per cercare di tornare alla sua vita prima di aver ucciso l’amico Lenskij in un insensato duello. Da questo punto Onegin è un’opera profondamente russa: chiunque abbia dimestichezza con i grandi romanzi ottocenteschi ha ben presente le reazioni impulsive e viscerali, le spirali viziose ed autodistruttive intraprese da personaggi spesso racchiusi in vincoli sociali, autoimposti nel tentativo di porre un freno alla propria incontenibile sensualità.
Non è semplice riuscire a portare sulla scena la complessità psicologica dei personaggi e delle situazioni di Čajkovskij, ma lo spettacolo di Barrie Kosky riesce con suggestiva furbizia a restituire tanto l’atmosfera quanto lo scavo nella mente dei personaggi, in particolare di Tat’jana, vera protagonista dell’opera. Per potersi realizzare a pieno, però, servono un cast e una direzione capaci di assecondare il lavoro della regia e approfondire ulteriormente l’opera. In questo il livello della produzione di Napoli è senz’altro alto, ma non sempre capace di grande penetrazione psicologica. Nel cast sono stati decisamente meglio gli uomini delle donne. Artur Ruciński è un Onegin di non ottima vocalità e un po’ affaticato, ma abilissimo nell’interpretazione attoriale del dandy londinese. Vederlo sciolto e agile sul palco mentre si fa motore mefistofelico dell’azione ha ridato senso all’intera vicenda. Onegin è tormentato e sprezzante, il sorriso beffardo si unisce agli scoppi di rabbia e alla frustrazione di un personaggio fondamentalmente scontento di se stesso. Che canti con soave timbro i suoi peraltro pochissimi momenti davvero cantabili è quasi irrilevante: che cantando delinei il profilo del suo personaggio e metta in moto gli altri è molto più importante. Da questo punto di vista, l’Onegin di Ruciński mi rimarrà ben impresso nella memoria. Meraviglioso il Lenskij di Michael Fabiano. Fin dalle prime note il timbro limpido e appassionato tradiva la tensione che attraversa il poeta e amico di Onegin. Personaggio apparentemente positivo, Kosky e Fabiano sono riusciti ad evocarne il carattere appassionato ma anche morboso, la gelosia esasperata, la violenza che riversa tanto su Onegin quando lo vede flirtare con la sua Olga, quanto con la sua stessa promessa sposa, cui Kosky fa elargire un sonoro schiaffo prima dell’addio. Meno riuscita la definizione del carattere delle due fanciulle. La brillante l’intuizione di Kosky di far comporre a Tat’jana la sua lettera strappando pagine al suo libro non funziona se l’interprete non riesce a divenire una fanciulla nervosa e malaticcia (i riferimenti al suo pallore si susseguono fin dalle prime scene) che si innamora perdutamente di un esimio sconosciuto. Sia chiaro Elena Stikhina è una cantante superba, bellissima voce, ottimo volume, capace di belle inflessioni espressive che le abbiamo già sentito più volte altrove, ma a causa forse una non splendida serata, non riesce a creare il personaggio. I movimenti sul palco sono goffi e vocalmente rimane immobile in quasi tutta l’opera. Valga la scena della lettera: rinchiusa in un cono di luce che delinea la camera (e la mente) di Tat’jana Stikhina si limita a stare ferma o vorticare sgraziatamente su se stessa, mentre l’alternarsi delle sezioni agitate e impetuose è passato in sordina e senza sensibili differenze. Non è d’aiuto in questo caso la direzione di Fabio Luisi, splendida nei passaggi più eleganti, ogni tanto sorprendentemente tesa, ma più spesso pesante quando dovrebbe bruciante, serafica quando dovrebbe essere febbrile. D’altronde il direttore ha fatto ciò che ha potuto con l’orchestra: nonostante qualche subitaneo risveglio nei passaggi più belli, l’Orchestra del San Carlo è apparsa sfilacciata e discontinua, soprattutto nei legni e nei corni, ma con qualche brutta sorpresa anche nei suoni di sezione degli archi. Per quanto Luisi cercasse a volte di infiammare l’orchestra, poi, gli effetti sono stati spesso più un lieve tepore. Fa eccezione il fenomenale finale, con un duetto meraviglioso tra Stikhina e Ruciński che per tensione musicale e attoriale è riuscito finalmente a squarciare il velo dell’inerzia e a concludere magnificamente l’opera.
Degli altri personaggi è stata discreta Nino Surguladze nei panni di Olga, cui mancava la cinguettante civetteria, l’entusiasmo vocale e l’agilità scenica da bambina, mentre meglio Monica Bacelli (Larina) e Larissa Diadkova (Filipp’evna), brave nella resa delle vecchie signore di provincia, un po’ stolide e sempre preoccupate delle apparenze. Buona l’aria di Gremin cantata da Alexander Tsymbalyuk, più a suo agio nel registro medio-acuto che in quello grave, ben accorata sebbene ancora di più si possa fare nel rendere l’unico personaggio forse capace di un amore maturo e sereno. Bene anche il coro preparato da José Luis Basso, nonostante un po’ di difficoltà di insieme con la buca in tutto il primo atto e un po’ di confusione generale. Rispetto allo spettacolo di Berlino, inoltre, i movimenti scenici sia delle masse sia dei personaggi sono stati molto più abbozzati, con tratti goffi e persino ridicoli. Un esempio per tutti: l’aggiunta del ballo della lavandaia all’inizio, con le anziane signore sedute a fare la marmellata, era fuori luogo a dir poco (e non presente nello spettacolo di Berlino, dove le due si limitavano ad ondeggiare a tempo). Sarebbe forse il caso di vietare finalmente gli imbarazzanti balletti di coro e personaggi quando non sono pensati con cura. Diverso è l’effetto che questi avevano nel leziosissimo couplet di Monsieur Tricket. Interpretato magnificamente da Roberto Covatta, con tanto di svenevole pianissimo, questo è uno dei momenti potenzialmente più fuori luogo dell’intera opera. Cantato così bene e così ben inserito nella regia evidenziava con forza la differenza tra la stucchevole borghesia di provincia, in cui si gettano a capofitto Olga, Larina e Filipp’evna, e le passioni irrequiete di Onegin, Tat’jana e Lenskij, che assistono snervati. In definitiva dunque un Onegin che va assolutamente visto e sentito, uno spettacolo di cui ancora molto si potrebbe parlare con interessanti punti di forza e di debolezza rispetto alla produzione del 2016, ma comunque meritevole di un viaggio nel teatro partenopeo.
Alessandro Tommasi
(18 giugno 2022)
La locandina
Direttore | Fabio Luisi |
Regia | Barrie Kosky |
Scene | Rebecca Ringst |
Costumi | Klaus Bruns |
Luci | Franck Evin |
Personaggi e interpreti | |
Larina | Monica Bacelli |
Tat’jana | Elena Stikhina |
Olga | Nino Surguladze |
Filipp’evna | Larissa Diadkova |
Evgenij Onegin | Artur Ruciński |
Lenskij | Michael Fabiano |
Il principe Gremin | Alexander Tsymbalyuk |
Un comandante di compagnia | Antonio De Lisio |
Zareckij | Rosario Natale |
Triquet | Roberto Covatta |
Un contadino | Mario Thomas |
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo | |
Maestro del Coro | José Luis Basso |
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