Palermo: il Crepuscolo dei sogni, tra incubi e risvegli

Il confine fra il sogno e l’incubo è una zona sfuggente, ambigua, ingannevole. In questa zona si muove Il crepuscolo dei sogni (qui il link  alla pagina YouTube) , lo spettacolo di Johannes Erath che ha inaugurato in diretta streaming la stagione del Massimo di Palermo. Difficilmente riconducibile a qualcuna delle categorie abituali in un teatro musicale, anche in periodo di pandemia, la proposta si snoda all’interno di una sorta di installazione ovviamente onirica che fa della zona della platea il suo punto focale, fra suggestioni sceniche “materiali” e molte altre multimediali: una drammaturgia frammentaria come quasi sempre sono i sogni/incubi, scandita da una sorta di “colonna sonora” dal vivo che avrà probabilmente sconcertato gli appassionati, visto che quasi nulla di ciò che si ascolta è integro e che la successione dei pezzi è gestita in chiave espressiva soprattutto per gli effetti di contrasto. Quando l’incubo sembra dissiparsi in una qualche “luce” musicale e perfino drammaturgica più confortevole e rassicurante, subito ci si ripiomba a capofitto. E anche questo fa parte della fenomenologia dei brutti sogni, se così vogliamo chiamarla.

La piattaforma sopra cui si svolge la maggiore parte dell’azione, se si può chiamarla così, ovvero la platea del Massimo, è ricoperta di neve – una vera e propria terra desolata e inospitale – cosparsa di oggetti più o meno abbandonati, i resti di un disastro che tutti coloro che sono davanti allo schermo televisivo o del computer conoscono perfettamente. Due poltroncine miracolosamente integre, un letto inutilizzabile perché manca la rete, vari monitor – anzi, televisori vecchio stile, con tanto di tubo catodico – sparsi qua e là e accesi su immagini sbiadite, in bianco-nero, traballanti. Un paio di specchi circondati di lampadine ricordano che una volta esistevano i camerini; da una parte c’è perfino un giradischi, inteso non certo nel senso di raffinato modernariato alla moda, ma proprio di reperto di un tempo andato.

In questa distopia onirica, un desolante scenario post-catastrofico, si muovono e si confrontano due personaggi in realtà senza nome, un soprano (Carmen Giannattasio) e un baritono (Markus Werba). Intorno a loro, più al largo, gira anche un basso (Alexandros Stavrakakis). Sono di volta in volta Violetta, il conte Danilo, Mefistofele, Don Basilio, Boris Godunov: sono personaggi non tanto in cerca di autore, ma di se stessi e del loro ambiente naturale, la scena. I primi due si apprezzano, si odiano, tornano ad andare d’accordo, si sforzano di vedere la luce in fondo al tunnel, affidata alle soavissime note del Duetto conclusivo dell’Incoronazione di Poppea, “Pur ti miro”. La speranza sta nel fatto che la neve è miracolosamente scomparsa, alla fine, e il pavimento è uno specchio che riflette l’intero teatro.

In realtà, inquietante fin dal titolo con le sue assonanze wagneriane (quando i sogni tramontano, restano gli incubi che popolano l’oscurità e il ritorno del sole diventa più un ricordo che una speranza), la sofisticata azione-installazione di Johannes Erath, regista quarantacinquenne in grande ascesa in Germania, qui alla sua prima prova italiana, non fa sconti e non concede soverchie illusioni. Lo spettacolo, infatti, mette a fuoco con dolorosa nitidezza la profondità della crisi in cui la pandemia ha sprofondato il mondo del teatro musicale. Simbolismi immaginifici, certo, giocati in maniera virtuosistica fra il concreto dello spazio scenico, improprio ma pur sempre “materiale”, e l’astratto di un sofisticato linguaggio video. Ma anche un rispecchiamento desolato del “qui e ora”. Sottolineato dalla voluta frammentazione della parte musicale. Se i teatri sono chiusi e il pubblico manca, è la tesi di Erath (che firma regia, drammaturgia, scene, costumi e luci), nulla può essere come prima. E dunque, lo stesso strumento che mantiene in vita tanti teatri, il live streaming, è utilizzato dal regista tedesco per affermarne la sostanziale inutilità.

Resta la capacità di sorprendersi – come dice lui stesso comparendo a video prima dell’inizio. Da lì il germe di una rinascita della quale, per ora, l’alba si può solo intuire.

A chi guarda e ascolta, il compito di evitare la ricerca di suggestioni drammaturgico-musicali inesistenti. Qui i brani celebri di Verdi e Wagner (il Liebestod in versione peraltro solo sinfonica è uno dei pochissimi pezzi proposti in versione integrale: non può essere un caso), di Korngold e Musorgskij, di Lehár e Schubert, di Rossini e Boito e Purcell e altri ancora, sono soltanto “segnavia” emotivi, frammenti che scandiscono il continuo mutamento della temperatura psicologica dell’azione, sia riguardo ai personaggi che allo scenario, continuamente cangiante con notevoli suggestioni visive (i video sono di Bibi Abel).

Giannattasio, Werba e Stavrakakis, come pure il coro istruito da Ciro Visco, reggono assai bene il gioco non solo e non tanto sul piano di vocalità comunque ben affinate e efficaci, ma per la capacità di entrare nella dimensione onirica e straniata della narrazione per immagini e suoni, modulando su di essa il gesto attoriale. Analogamente, il direttore Omer Meir Wellber tiene salda la barra musicale all’interno di una proposta che, com’egli stesso afferma, non ha nell’ascolto il risvolto principale. E si fa a sua volta personaggio anche spiritoso, sia cantando un accattivante brano klezmer della folksinger israeliana Chava Alberstein, sia lasciando il podio per imbracciare la fisarmonica. Con questo accompagnamento popolare risuonano, nel Crepuscolo dei sogni, l’iniziale Preludio della Traviata e il conclusivo citato duetto monteverdiano. L’ingresso nell’incubo e (forse) la sua fine hanno qualcosa in comune…

Cesare Galla
(26 gennaio 2021)

La locandina

Direttore Omer Meir Wellber
Regia, drammaturgia, scene, costumi e luci Johannes Erath
Video Bibi Abel
Coreografia Davide Bombana
Assistente alla regia Lorenzo Nencini
Movimenti coreografici Ugo Ranieri
Interpreti:
Soprano Carmen Giannattasio
Baritono Markus Werba
Basso Alexandros Stavrakakis
Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Maestro del coro Ciro Visco
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo

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