Palermo: la Favorite tra Belcanto e Grand opéra

L’approdo in terra di Francia, segnatamente a Parigi, è in qualche modo cruciale per i grandi operisti italiani; Donizetti non fa eccezione.

Come era stato per Rossini, e pochi anni dopo sarà per Verdi, le commissioni francesi costituiscono un salto stilistico tutt’altro che indifferente da cui i compositori usciranno ulteriormente arricchiti e in parte cambiati.

Senza scendere a compromessi estetici Donizetti sposa completamente gli stilemi del Grand opéra, facendoli suoi e dando vita ad una serie di lavori di indubbio spessore drammatico.

La Favorite, che riprende almeno in parte l’argomento della fino a poco tempo fa perduta – oggi ritrovata – Ange de Nisida, è un meraviglioso feulleiton dalla trama non sempre lineare ma ricco di colpi di scena, di amori e di intrighi tale da catturare con certa qual sapienza l’attenzione del pubblico.

Si potrebbe affermare, con scarsa possibilità di smentita, che La Favorite costituisca fonte d’ispirazione per più di una composizione successiva; se Gounod le è debitore per la sintassi delle arie e dei duetti, Verdi la ebbe sicuramente ben presente durante la composizione del Don Carlos.

Un esempio su tutti è Balthazar, il monaco intransigente che, divenuto legato pontificio, è de facto il padre del Grand Inquisiteur verdiano, senza dimenticare lo scontro tra religione e politica e l’amore dell’eroe romantico per una donna destinata ad altri.

Donizetti, come si diceva, si francesizza senza snaturarsi, le caligini malinconiche della bergamasca riemergono per accenni, i concertati lievitano senza tuttavia perdere stringatezza drammatica, le arie e le cabalette, ci si perdoni l’ossimoro, sono intimamente esteriorizzate, il tutto al servizio di una teatralità fortemente esibita.

Al Teatro Massimo di Palermo La Favorite approda per la prima volta nel suo originale in francese e in versione integrale, compresi i ballabili, e il risultato va molto al di là di ogni più rosea aspettativa.

L’allestimento di Allex Aguilera è confortevolmente calligrafico nel suo mantenersi aderente alle famigerate “istruzioni” del libretto, care al pubblico più tradizionalista.

Tutto si svolge nei tempi e nei luoghi canonici, ben scanditi dalle scene di Francesco Zito – che firma anche i curatissimi costumi ispirati allle fogge di almeno due secoli – nelle quali i fondali dipinti e pochi elementi architettonici richiamano non solo la Spagna del XIV secolo, ma anche la Palermo normanna e aragonese.

Il meccanismo è ben oliato e tutto scorre senza intoppi, con fantasia non eccessiva ma comunque con correttezza formale, anche se per le luci Caetano Villa avrebbe potuto fare qualcosa di più.

Carmen Marcuccio risolve con garbo i ballabili ispirandosi alle coreografie dalle linee orizzontali care alla prima metà dell’Ottocento, affidandole all’ormai esiguo ma ancora agguerrito Corpo di Ballo del Massimo.

La parte del leone, e che leone, la fanno però il direttore e la compagnia di canto.

Francesco Lanzillotta lavora di cesello sino ad ottenere una trama sonora ricca di colori, capace di accendersi in slanci appassionati per cedere il passo a momenti di straniante rarefazione, raccontando una storia della quale domina alla perfezione tutti gli elementi e rendendola avvincente in ogni suo momento.

Le sue scelte dinamiche e agogiche, così come pure l’adesione appassionata alla melodia esaltano la “francesità” dell’opera, dando giusto rilievo ai momenti pompier ma non dimenticando mai l’intimità della partitura.

Nel rôle-titre Sonia Ganassi si dimostra ancora una volta belcantista di razza, disegnando una Léonor indomita e al contempo vittima degli eventi che la sovrastano, il tutto poggiato su una linea di canto consacrata all’espressività della parola e alla fluidità dell’emissione; il suo “O mon Fernand” è un tripudio di colori.

John Osborn dal canto suo tratteggia un Fernand tormentato come un eroe schilleriano e lo fa con una strabiliante dovizia di mezzi vocali; il canto corre fluido, sempre sul fiato e animato da un fraseggiare rigoglioso. Gli acuti risultano di una facilità impressionante e, insieme alla rotondità dei centri, gli permettono di raccogliere con pieno merito l’eredità di Duprez. “Ange si pur” è risolto come una meditazione ed è un tripudio di mezzevoci.

Ha poco più di trent’anni Mattia Olivieri, ma canta e recita con la sapienza di chi ha lustri di palcoscenico alle spalle; il suo Alphonse presenta una maturità espressiva che lascia sconcertati, il tutto a far principio da uno strumento vocale di prim’ordine e una fisicità non comune, tanto da pensare che le Muse abbiano fato a gara a profondergli i loro doni.

Il fraseggio è nobile e si plasma con duttilità ad evidenziare il carattere mutevole del sovrano, diviso tra amore e politica.

Ottimo il Balthazar umbratile di Marko Mimica, autorevole nella cavata grave e capace di bella espressività.

Clara Polito nobilita Inès, seconda donna a tutti gli effetti, con un’interpretazione ben calibrata e forte di agilità sicure, mentre Blagoj Nacoski, voce cristallina e fraseggio insinuante, veste con classe e distaccata ironia i panni del vilain Don Gaspar.

Completa il cast Carlo Morgante nel personaggio di un Seigneur.

Bene il Coro preparato da Pietro Monti.

Successo meritatissimo e prolungato per tutti, oltre a numerosi applausi a scena aperta.

Alessandro Cammarano
(24 febbraio 2019)

La locandina

Direttore Francesco Lanzillotta
Regia Allex Aguilera
Scene e costumi Francesco Zito
Luci Caetano Vilela
Coreografia Carmen Marcuccio
Personaggi e interpreti:
Léonor Sonia Ganassi
Fernand John Osborn
Alphonse XI Mattia Olivieri
Balthazar Marko Mimica
Don Gaspar Blagoj Nacoski
Inès Clara Polito
Un seigneur Carlo Morgante
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo
Maestro del Coro  Piero Monti

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