Palermo: l’Amore declinato da Schönberg e Bartók
Non chiamatelo “dittico”, semplicemente perché non lo è; sono due opere, tanto brevi quanto intense che, nell’approccio organico che su di esse operano Stefano Ricci e Giovanni Forte, ovvero ricci/forte, diventa un’unica declinazione di modi diversi di intendere l’amore.
La mano felice e il Castello del duca Barbablù narrano il medesimo tema in forma del tutto antitetica: se nel lavoro di Schönberg il desiderio dell’Uomo sì rarefà concentrandosi esclusivamente sull’idea della donna amata, idealizzata all’estremo e che egli mai vede, della quale è appagato completamente nel solo sfiorarle fugacemente la mano, in Bartók la sensualità, che diventa curiosità morbosa ed esiziale, è palpabile in ciascuna frase e in ogni nota in un climax che trova soluzione nel “sacrificio”, pervicacemente ricercato, di Judit.
È un “circo della pazzia” che unifica i due drammi, un luna-park in cui si muovono prestigiatori e sirene, e dove nulla è come sembra; in realtà si percorrono i labirinti della mente nelle loro più incognite volute.
Tutto è chiaro sin dal prologo, sulle frasi stringate della Musica di accompagnamento di una scena cinematografica op. 34 di Schönberg, dove una donna barbuta si spoglia dei suoi panni opulenti per indossare, dopo aver deposto a lato del boccascena una piccola bara bianca, una divisa da infermiera.
L’azione immaginata da ricci/forte è calata nello spazio scenico bello e straniante immaginato da Nicolas Bovey e illuminato da Pasquale Mari, il cui luna-park si cela dietro cortine lattiginose che lasciano trasparire senza mai rivelare sino in fondo e affidata, più che ai singoli personaggi, vestiti con opulenza da Gianluca Sbicca, al contorno che intorno a loro si muove; mimi e danzatori intesi come proiezioni di un inconscio incapace di emergere nella sua intima completezza.
La Donna vagheggiata dall’Uomo nella Mano Felice diventa l’assistente de Gentiluomo-prestigiatore, che di lei fa esattamente ciò che vuole, mentre il protagonista, qui non sempre sdraiato, sembra agire in una dimensione altra rispetto a chi si muove intorno a lui, brandendo un trofeo che gli sarà strappato e posto dove gli sia impossibile recuperarlo.
L’Uomo diventa, o probabilmente è, il Barbablù dell’opera di Bartók, ovvero colui che sarà costretto a determinare la fine-non fine di Judit, sposa che paga la sua curiosità di conoscenza.
Non ci sono porte in questo castello di Barbablù, ma le stanze e il loro contenuto sempre più macabro si animano attraverso i movimenti ad alta densità, di Marta Bevilacqua, dei danzatori. Straordinarie le donne che con i capelli bagnati richiamano il lago di lacrime, solo per fare un esempio.
Ricci, che firma la regia, cura ogni particolare con cura quasi maniacale, nulla è lasciato al caso, tutto è perfettamente calibrato a conferire unità alle due azioni pur nella loro assoluta anteticità e a sottolineare che nulla è come appare, il tutto in un lavoro che in qualche modo rimanda alla maieutica.
La liaison fra Mano felice e Castello di Barbablù sta nella lectio magistralis che il”dottore” Giuseppe Sartori, introdotto dalla Marcia dei gladiatori, tiene al pubblico; argomento innamoramento e amore; il monologo funziona, anche se con qualche forzatura e, forse, estendendosi a tratti un po’ più a lungo del dovuto.
Magnifico il finale, con Barbablù che, a sipario calato, apre la piccola bara bianca, che null’altro è se non un carillon; nulla dunque è come sembra, esattamente come nell’amore.
Gregory Vajda opera in piena sintonia con ricci/forte, sposandone la visione globale del lavoro e plasmando la sua direzione non sulla, ma con l’azione scenica in un‘ ammirevole unità d’intenti. Se in Schönberg è l’aspetto ritmico a prevalere sono invece gli abbandoni sensuali e tragici ad essere prevalenti in Bartók. L’Orchestra segue con ammirevole partecipazione, così come il Coro, preparato da Piero Monti.
Nel complesso convince la Judit aspra e intima di Atala Schöck, che debuttava nel personaggio, padrona di mezzi vocali opulenti, come più che discreto risulta Gabor Bretz nel doppio ruolo dell’Uomo e di Barbablù.
Bravissimi i performers, tutti, ovvero Zoé Bernabéu, Francesca Di Paolo, Beatrice Fedi, Ramona Genna, Sofia Leopizzi Russo, Fabiana Mangialardi, Simona Miraglia, Carolina Alessandra Valentini, come bravi Claudia Munda, come Eine del Frauen e Alfio Marletta, Einer d’Erme Männer.
Pubblico attento e successo meritato.
Alessandro Cammarano
(20 novembre 2018)
La locandina
Direttore | Gregory Vajda |
Progetto creativo | ricci/forte |
Regia | Stefano Ricci |
Scene | Nicolas Bovey |
Costumi | Gianluca Sbicca |
Luci | Pasquale Mari |
Movimenti | Marta Bevilacqua |
Ein Mann / Kékszakállú | Gabor Bretz |
Judit | Atala Schöck |
Attori | Giuseppe Sartori, Piersten Leirom |
Performers | Zoé Bernabéu, Francesca Di Paolo, Beatrice Fedi, Ramona Genna, Sofia Leopizzi Russo, Fabiana Mangialardi, Simona Miraglia, Carolina Alessandra Valentini |
Eine der Frauen | Claudia Munda |
Einer der Männer | Alfio Marletta |
Orchestra e Coro del Teatro Massimo | |
Maestro del Coro | Piero Monti |
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