Paolo Arcà: nell’opera è essenziale la coesione
Compositore e pianista, Paolo Arcà à stato direttore artistico al Teatro alla Scala di Milano dal 1993 al 2003, ai tempi di Riccardo Muti, direttore musicale al Teatro Maggio Musicale Fiorentino, dal 2006 al 2010, e direttore artistico della Società del Quartetto di Milano, Filarmorica Romana, una delle principali società di concerti di musica da camera in Italia. Da febbraio è il nuovo direttore artistico del Teatro dell’Opera di Roma. Il suo mandato scadrà tra un anno, perché così prevede la legge per gli incarichi assegnati ai dirigenti in pensione. Ma in un anno sono tanti i semi che possono germogliare e le cose che si possono realizzare. Per questo lo abbiamo intervistato.
- Maestro Arcà come vive il suo nuovo incarico?
Con grande entusiasmo. Rimboccandomi le maniche e lavorando dodici ore al giorno con una squadra di collaboratori bravissimi.
- Lei è famoso per aver consegnato a Riccardo Muti lo spartito del Dialogue des Carmélites di Poulenc, con cui poi la Scala vinse il Premio Abbiati, e per aver puntato sulla musica contemporanea. Quali progetti ha per l’Opera di Roma?
Vorrei ispirarmi alla triade armonica delle tre note della scala musicale, do, mi, sol, per armonizzare le produzioni e dare un’impronta di coesione ai progetti del Teatro dell’Opera di Roma, evitando un susseguirsi di titoli da supermercato come succede in molti teatri d’opera stranieri. Noi in Italia siamo abituati al teatro di stagione. Gli spettacoli sono prototipi che nascono come macchine sceniche con la massima cura, ma non possiamo mettere in scena una sera Verdi e la sera dopo Wagner. Per noi è necessario seguire un percorso organico, e curare durante le prove l’affinamento delle musiche con i cantanti.
- Rivendica insomma la singolarità della tradizione italiana?
Esiste una ricchezza di fantasia tutta italiana che rischia di venire spenta da norme che non hanno alcuna capacita di valorizzazione. Bisogna creare le condizioni per produrre eccellenza pura, senza dimenticare la frenesia, l’ebbrezza, che ispira ogni giorno la perfezione e l’eccellenza. Personalmente sono convinto che oggi lo spettacolo d’opera abbia senso se diventa compenetrante con la musica, se l’allestimento rifrange il collegamento con la musica. Troppo facile ambientare la Traviata in una metropolitana, Quello che conta è l’idea simbolica del dramma, idea che è deve essere ampliamento della musica, e consustanziale alla partitura.
A Roma in questo senso abbiamo appena visto la Salome di Barrie Kosky, dove l’estrema radicale epurazione dell’allestimento era a servizio della sovranità della partitura di Richard Strauss.
È vero. Abbiamo è stato uno spettacolo straordinario, che rappresenta un buon esempio della mia idea. Con una Salome vestita di bianco, che appare all’inizio in un lungo intermezzo senza voci, illuminata da un raggio di luce lunare.
- L’impronta che lei intende dare al Costanzi dunque va in questo senso?
Opera lirica e teatro musicale sono una forma di rappresentazione di noi stessi, del nostro modo di essere, del nostro cuore, dei nostri affetti, nella nostra anima. L’opera lirica, in quanto genere d’arte nato a Firenze nel 1601 in seno alla Camerata dÈ Bardi, è una delle invenzioni più rivoluzionarie nella storia dell’umanità, un concentrato di musica, orchestra, canto, drammaturgia, danza, scena, luci costumi. Questo tipo di situazione va studiata, allevata, nutrita superando l’opera come semplice allestimento, come mera traduzione del momento illustrativo dello spettacolo
- Oggi domina il dilemma tradizione-tradimento. Qual è la sua opinione sul tema?
Io credo che il dilemma tradizione-tradimento, centrale nel dibattito sull’opera lirica di oggi, non abbia molto senso. Ha poco senso fare spettacoli come quelli di Franco Zeffirelli. Oggi sono un genere irraggiungibile. Ma non ha senso nemmeno il tradimento. A Aix en Provence ho visto un Tristan messo in scena dai Simon Stone dove al Terzo atto invece della desolata spiaggia in cui Tristano morente invoca ansimante l’arrivo di Isolde, la scena viene trasportata nella metropolitana di Parigi con un treno fermo alla stazione Châtelet les Halles. E questo non va bene.
Io voglio che musica e dramma si accendano a vicenda e provochino un incendio. L’anacronismo dell’opera lirica va superato se si concepisce un prodotto al passo con il modo di essere. Ma è necessario verificare innanzitutto il progetto artistico, e la sua coerenza.
- Quali saranno dunque le linee guida della sua direzione?
Da musicista che esercita la musica al massimo nel presente, proporrò un cartellone che va dal barocco al Settecento, all’800 italiano e all’800 fuori dall’Italia. Sarà un mosaico di proposte diverse per fondere epoche diverse. Penso di coinvolgere grandi registi come Barrie Kosky e Robert Carsen che raggiungono sempre un buon risultato, lavorando in particolare su una terza via, dove simbolicamente, attraverso la sottrazione della scenografia, lo spettacolo entra nell’animo dello spettatore e diventa evocativo di una situazione lirica corrispettiva alla musica.
- È questo il segreto per uscire dal dilemma tradimento-tradizione?
Insisto, nello spettacolo dell’opera lirica è importante arrivare a una forte coesione. La cosa fondamentale è l’energia che si ottiene con invenzione e coesione. Insomma io penso che ci voglia più passione e meno trovate. A volte un regista si innamora di un’idea che poi è difficile da portare avanti. Per esempio Falstaff ambientato nei saloni di casa Verdi, viene a perdere l’alternanza miracolosa delle varie scene. Del resto, ci sono spettacoli cristallizzati, come il Ratto del Serraglio messo in scena alla Scala da Giorgio Strehler, che come un gioiello dentro una teca, non passibile di giudizio, come lo Sputnik che gira intorno alla terra con dentro la Divina Commedia, e il quartetto 130 di Beethoven. Ma tra questi due estremi esiste certamente la possibilità di un’alternativa.
- Anche a Roma punterà sull’opera contemporanea?
C’è una forte volontà di apertura, che porterà a nuove coproduzioni, puntando sulle idee, sui cervelli, per scatenare le curiosità e ribadire che il teatro dell’opera oggi è uno specchio in cui leggiamo noi stessi, le nostre passioni, le nostre inquietudini. E già questo ci fa sentire mezzo metro sopra la terra. Il teatro è sogno, immaginazione, e perciò deve creare una dimensione iperuranica in cui lo spettatore, preso per mano, possa attingere a suggestioni inaspettate.
- Qualche titolo?
Posso già annunciare la ripresa nel 2025 dell’Adriana Mater della compositrice finlandese Kalija Saariaho, morta un anno fa. È lo sguardo su una guerra vista dalla prospettiva di una donna che aspetta un bambino, frutto di uno stupro. La messa in scena di Peter Sellars che vidi a Parigi nel 2006 resta ai miei occhi la dimostrazione che si può scrivere in modo umano, convincente e emotivo, e convergere verso i sentimenti, anziché adottare semplici schemi.
Marina Valensise
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