Paolo Fantin: «Lascio che lo spettatore interpreti l’oggetto artistico con la propria sensibilità»
Paolo Fantin è una delle punte del formidabile tridente teatrale formato da lui, Damiano Michieletto e Carla Teti. A loro si devono – con buona pace delle vestali della “tradizione” – alcuni tra gli spettacoli più riusciti degli ultimi tre lustri. Lo abbiamo raggiunto per fargli qualche domanda sui suoi ultimi lavori e non solo.
- Insieme a Damiano Michieletto e a Carla Teti sei stato protagonista, dall’estate scorsa a poche settimane fa, di tre allestimenti importanti. Com’è lavorare ai tempi della pandemia?
Prima di ogni cosa lavorare in questi tempi di pandemia è un privilegio, il mondo del teatro è fermo da un anno e riuscire a fare una produzione è un messaggio di un bisogno che nessun politico ha preso veramente in considerazione che è il bisogno dell’anima. Ho lavorato a Roma, Lione, Berlino e Milano e in tutti questi teatri ho sentito la voglia e la necessità di dire “siamo ancora qui “e se per farlo dobbiamo trovare vie alternative e rompere schemi prefissati siamo pronti a farlo in nome dello spettacolo. In tutti questi teatri ho lavorato con protocolli molto precisi e rigidi: tamponi ogni settimana, distanze, mascherine e nessun contatto quando si usciva dal teatro e soprattutto niente pubblico. Questa è la cosa che mi ha più turbato mi sono reso conto che il pubblico è un elemento imprescindibile per la creazione di uno spettacolo dal vivo, lo streaming e la tv sono mezzi preziosi che ci hanno sostenuto per fortuna e che spero continueranno a farlo anche dopo ma nulla può sostituire il respiro e la condivisione del pubblico dal vivo. Fare uno spettacolo davanti alla platea vuota ti lascia un senso di incompiuto.
- Jenůfa e Salome sono due drammi familiari, circoscritti eppure universali, in cui religione e sessualità sono elementi imprescindibili. Come hai affrontato la loro messa in scena?
Ho affrontato queste due storie cercando dei simboli, degli oggetti estetici che potessero rappresentare l’archetipo, ho cercato di creare dei mondi mentali che non avessero nulla di realistico in cui ognuno può interpretare a suo modo e con la propria esperienza. In Jenůfa l’iceberg freudiano che rappresenta l’inconscio più oscuro di ognuno di noi e il ghiaccio un materiale che raccontava la musica e i rapporti tra i personaggi. In Salome la metabolizzazione di un trauma infantile attraverso la voce del profeta, la scena è un mausoleo astratto dove si aprono due voragini una sulla terra da cui esce la tomba del vero padre di Salome e una dal cielo dove scende una grande pupilla nera che è simbolo del trauma subito. Attraverso la veste sacrificale da cui scendono lacrime di sangue durante la danza dei sette veli e la testa di Jochanaan che diventa un’estasi sacra Salome si riunisce con il padre come una martire, il mausoleo si piega su se stesso come in una apocalisse richiudendola per sempre nel nero profondo della tomba del padre.
- Quanto sono importanti i riferimenti iconografici e letterari nel concepire una scenografia?
Sono davvero fondamentali in questo momento del mio percorso perchè negli ultimi anni sto lavorando verso una sintesi dello spazio e del concetto di spazio, mentre prima ricercavo il dettaglio realistico ora lavoro nella direzione opposta e cerco di togliere il realismo per andare al nocciolo della questione emotiva, mi sono reso conto che non ho più bisogno di raccontare mondi verosimili alla realtà ma mondi più vicini alla psicologia dei personaggi.
Riferimenti iconografici dell’arte e letterari mi aiutano molto nella mia ricerca perchè sono epici e parlano attraverso i tempi, un simbolo ha la potenza di essere un veicolo di comunicazione forte se usato nel modo giusto. Lascio che lo spettatore interpreti l’oggetto artistico con la propria sensibilità e penso che questa libertà dia più respiro e potenza allo stesso, spingare troppo alla fine indebolisce un pensiero e un’immagine.
Spesso do un titolo personale agli spazi e alle immagini che creo perchè li considero personaggi veri e propri con una loro vita.
- Tu, Damiano e Carla siete assolutamente complementari tra di voi. Qual è il vostro segreto?
Il segreto è che ci riteniamo un team creativo e come tale siamo cresciuti insieme attraverso le esperienze, ognuno di noi ha la libertà di entrare nel processo creativo in modo totale.
Non lavoriamo a compartimenti stagni ma ci contaminiamo a vicenda e penso che questo sia il vero motivo che tiene legato il gruppo. Io mi sento libero di esprimere la mia creatività e pensiero e questo mi stimola lavoro dopo lavoro, come in un viaggio dove ad ogni posto in cui ti fermi impari qualcosa.
- Perché, secondo te, certa parte del pubblico italiano fatica ancora ad accettare il teatro di regia?
Sinceramente tutta la polemica sul teatro di regia la sento molto lontana dalla mia sensibilità, trovo abbastanza inutile non accettare che l’opera lirica essendo Arte subisca delle modifiche con lo scorrere del tempo come è avvento nell’Arte così avviene anche nell’opera. Personalmente io non rinnego il passato anzi lo guardo con molta ammirazione e credo che passato e futuro devono andare insieme ma nessuno dei due deve escludere l’altro. Io come artista ho il bisogno di dare il mio punto di vista nelle cose, nelle emozioni e mi sento in dovere di farlo, ho bisogno di interpretare il mio tempo e per fare questo non bastano i costumi e le scene moderne la questione è molto più profonda, ho bisogno di rendere le emozioni visibili attraverso le immagini.
- Progetti per il futuro?
Stiamo partendo per Glyndebourne dove faremo Kát’a Kabanová poi in programma abbiamo Rosenkavalier a Vilnius in coproduzione con Bruxelles e Les Contes d’Hoffmann a Sydney in coproduzione con la Royal Opera House di Londra.
E poi ci sono cose nuove che spaziano fuori dall’opera la prima il film Gianni Schicchi girato in maniera 100% cinematografica in Toscana in vere location prodotto dalla casa di produzione GENOMA FILM.
Poi la grande novità è che stiamo cercando di creare un team artistico che si muova oltre che nel teatro anche nell’ambito delle arti visuali quindi con istallazioni e performance percorso cui noi teniamo molto proprio per la necessità di farsi contaminare dalle arti contemporanee.
Alessandro Cammarano
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