Parigi: un Trovatore lunare chiude la stagione all’Opéra National

Secondo Alberto Savinio Il Trovatore è il capolavoro assoluto di Giuseppe Verdi. In nessuna delle altre opere del maestro di Busseto l’ispirazione si è elevata al livello della diciottesima. Nessuna può vantare una tale quantità di canti che sappiano descrivere la solitudine notturna dei suoi personaggi e ne rappresentino, con altrettanta purezza, l’anelito all’elevazione.

Non è un caso se Il Trovatore, quattro atti su libretto di Salvatore Cammarano completato da Leone Emanuele Bardare ispirato al dramma di Antonio Garcia Gutierrez “El Trovador”, è definita opera notturna. I colori che dominano sono il blu delle notti di Spagna e il rosso della fiamma, la vampa cantata da Azucena, attorno alla quale si ritrovano Manrico, il trovatore del titolo, e la comunità zingara di cui la gitana Azucena – l’unica grande figura di madre verdiana in un universo drammatico popolato di padri – è l’elemento più autorevole. E’ Azucena a curare Manrico dopo che il giovane, ferito in un duello dal rivale in amore, il Conte di Luna, l’aveva risparmiato, mosso da strana pietà.

Non addentriamoci a sviscerare però una trama che, dice il luogo comune, è impossibile da raccontare. Certo è che la drammaturgia verdiana è, nel Trovatore, in tutto e per tutto perfetta. I fatti, numerosissimi, accadono quando devono accadere, e consentono a ciascuno dei quattro protagonisti di brillare ciascuno di luce propria. Vero è, e anche questo però è un luogo comune, che delle tre opere della cosiddetta “trilogia popolare” Il Trovatore (Roma, gennaio 1853) è sicuramente quella più rivolta al passato dei cosiddetti “anni di galera”.

Per Rigoletto, l’opera che fra le tre guarda più avanti, e per La Traviata, Verdi, del resto, ha come librettista non già l’ormai stanco Cammarano, ma il veneziano Francesco Maria Piave, il maggiore – è opinione di Luigi Baldacci nel suo celebre saggio su Verdi “Padri e figli” – fra i suoi collaboratori.

Eppure, il fascino “ancien régime” dà a Il Trovatore, se non il primato, una posizione tutta particolare nella produzione verdiana. E’ l’opera romantica per eccellenza del Cigno di Busseto. E’ opera di un dinamismo quasi parossistico, laddove le altre due della trilogia scavano nel profondo dei loro personaggi. Se Rigoletto e La Traviata prefigurano il teatro borghese di fine Ottocento, Il Trovatore, nella sua struttura drammatica, guarda a Lucia di Lammermoor e ad altri lavori donizettiani di cui, non a caso, Salvatore Cammarano fu il librettista.

Mettere in scena Il Trovatore, opera per la cui esecuzione sono necessarie, secondo l’autore, le quattro più belle voci del mondo, è gesto di grande coraggio.

L’Opéra National di Parigi la ripresenta a chiusura della sua stagione 2017/2018 e riprende l’allestimento, una produzione di Alex Ollé de “La Fura dels Baus” per la regia, con la collaborazione di Valentina Carrasco, di Alfons Flores per le scene, di Lluc Castello per i costumi, e di Urs Schönebaum per le luci, davvero ottime, nato alla Nationale Opera di Amsterdam e già apprezzato alla Bastille due stagioni fa. Lo spettacolo rilegge la classicità dell’opera con pennellate introspettive dei personaggi frutto di acuta riflessione. E’ notturno, lunare, dinamico e classico al tempo stesso. Dà alla figura di Azucena la centralità che le compete e non ce la restituisce come erinni ululante ma come madre che vive, quasi in “trance” il ricordo dell’offesa subita.

Quanto alle voci, in tempi di vacche magre per la vocalità verdiana, il quintetto ascoltato si è dimostrato di discreta qualità. Anita Rachelishvili è un’Azucena giustamente imperversante, tornita nel fraseggio, abile nella recitazione e nella restituzione della parola scenica, in grado di eseguire il Do (quello sì, scritto da Verdi) che al suo personaggio di contralto compete. Insomma, un’artista a tutto tondo. Di Marcelo Alvarez, sia pure in fase declinante, possiamo dire che canta e fraseggia bene, non rifiuta gli ostacoli che Verdi dissemina nella partitura ed è, alla fine, un Manrico credibile. Diverso da quelli che siamo stati abituati a vedere agire e cantare sui nostri palcoscenici, ma bravo. Zeljko Lucic è un “rio de Luna” di ascendenza donizettiana, anzi crediamo che il vero repertorio di questo valente baritono, dovrebbe essere più lirico che drammatico. La scarsità di voci importanti l’ha portato a interpretare ruoli baritonali molto esigenti e a forzare, qui e là, la sua linea di canto. Ciò non toglie che la sua sia stata un’interpretazione in crescendo. Mika Kares in Ferrando si è rivelato basso di eccellente qualità e buone si sono dimostrate le prestazioni di Elodie Hache (Ines), Yu Shao (Ruiz), Lucio Prete (il vecchio zingaro) e di Luca Sannai (un messo). La regina della serata è stata però la Leonora di Sondra Radvanovsky.

Un’artista in continua crescita dalla vocalità completa in tutti i registri, dall’agilità rifinita, dal fraseggio capzioso, eccellente nella resituzione della parola “scenica”.

L’Orchestra e il Coro stabili dell’Opéra, quest’ultimo preparato da José Luis Basso, non demeritano. Tutti hanno reso al massimo accompagnati dal podio dall’esperienza di Maurizio Benini, un concertatore e direttore attento a restituire la tinta notturna del lavoro e in grado di sostenere le voci e il palcoscenico. Alla recita cui abbiamo assistito, la diciottesima in quest’allestimento alla Bastille, successo pieno per tutti.

Rino Alessi
(27 giugno 2018)

La locandina

Direttore Maurizio Benini
Regia Àlex Ollé
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Urs Schönebaum
Personaggi e interpreti:
Il Conte di Luna Željko Lučić
Leonora Sondra Radvanovsky
Azucena Anita Rachvelishvili
Manrico Marcelo Alvarez
Ferrando Mika Kares
Ines Élodie Hache
Ruiz Yu Shao
Un vecchio Zingaro Lucio Prete
Un Messo Luca Sannai
Orchestre et Choeurs de l’Opéra national de Paris
Maestro del coro José Luis Basso

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