Parma: una Giovanna d’Arco al maschile

Giovanna d’Arco è opera in cui v’è di tutto e di più, ma questo magma di stili e generi v’è in piccolo – l’aggettivo s’intende riferito all’estensione e non al valore, nient’affatto ristretto -, ad animare una sorta di grand opéra cameristico (l’ossimoro mi pare esplicativo), in cui la dimensione prettamente storica e grandiosa è vieppiù rastremata, fino ad assottigliarsi in un lungo sprazzo intimistico che percorre l’intera composizione, come se gli eventi, riconfigurati ed alterati ad hoc, fossero insistentemente osservati attraverso la lente dell’individualità di Giovanna, di Carlo, di Giacomo.

Dunque, la direzione di Michele Gamba non sembra percorrere un’idea così peregrina nel voler restituire un dramma più della mente e dell’interiorità – quella dei suoni e dei protagonisti -, che un affresco storico dall’esteriorità battagliera e maiestatica.

La bacchetta si rivela incalzante (ma sempre con riguardo) laddove i cori cantano di religione, guerra e rabbia, molto rarefatta, invece, quando i personaggi parlano di sé o agli altri, ed è come se si astraessero dalla storia che li riguarda. Siffatta lettura, però, si scontra a volte con la sua concreta realizzazione, che non sempre fa quadrare il cerchio, risultando o poco allettante, quindi piana e pacata, nel senso etimologico di troppo pacificata, senza la fiamma e il sangue necessari, o troppo ragionata, senza la risolutezza dell’impulso: nel complesso convince, sì, ma pare più lasciare il segno nelle idee che nei fatti.

Ad ogni modo la Filarmonica Arturo Toscanini suona assai bene, risultando compatta e assecondando a dovere le non facili, o quanto meno non immediate, istanze direttoriali; il Coro del Teatro Regio di Parma, vero e proprio quarto protagonista, risplende in ogni suo momento, emergendo al meglio sia nel clima bellico che in quello di raccoglimento.

Il baritono mongolo Ariunbaatar Gunbaatar (prima o poi, se nessuno l’ha ancora fatto, andrà compiuto un attento studio sulle corde baritonali nate e sviluppatesi in Mongolia) ha un’ira di dio di fiato e voce, un fiume potentissimo, bello e scuro, ma con un’anima luminosa al suo interno, come del caldo metallo bronzeo screziato d’argento brillante. Ma non finisce qui, perché il nostro accenta, fraseggia e articola sia con eccellente senso del canto e del testo, sia con sorprendente pronuncia e proprietà di madrelingua. E sebbene accada che la voce si sporchi o che un suono non risulti perfettamente coperto, il suo Giacomo è comunque tanto intenso e generoso da non risultarne mai depauperato. Il pubblico, che già lo ama, lo ha festeggiato a pieni polmoni.

Molto bene ha fatto Luciano Ganci come Carlo VII: all’impeto vocale gagliardo, sicuro e saldo nel settore acuto sempre smagliante, e al bel timbro fulgido, unisce un non secondario senso d’introspezione e raccoglimento, con fini mezze voci e accorati pianissimi, riflessi in un fraseggio scolpito ma mai lezioso. Applauditissimo, com’era ovvio che fosse, anche lui.

Meno convincente, eppure in crescendo negli ultimi due atti, è risultata la Giovanna di Nino Machaidze: il soprano ha timbro peculiare, a tratti aspro e metallico, che però s’addolcisce quando canta con maggior levità e compostezza; non di rado si verifica che ecceda nei suoni acuti, risolti di forza, come in un grido (Gamba avrebbe dovuto e potuto indirizzarla meglio, ad un raccoglimento e controllo maggiori). Ciò nonostante, il teatro ha apprezzato il suo ritratto, centrato sotto il profilo interpretativo, e l’ha applaudita con calore.

Di ottimo livello il Delil di Francesco Congiu e il Talbot di Krzysztof Bączyk.

Dal canto suo, la nuova regia non vince e non perde, ma si ferma a metà, in un limbo nebbioso che presto sfocia nella dimenticanza. Emma Dante mette in campo i suoi stilemi ormai classici, se non standardizzati, e li riconfigura per adattarli alla narrazione dell’opera, senza però stupire o coinvolgere realmente (alcune scene fanno presagire intenzioni che poi non si realizzano). L’idea dei fiori, sorta di correlativo oggettivo per la rinascita dopo il male della guerra e della lotta, anche interiore, sembra più un innesto posticcio che uno sviluppo naturale della vicenda, mentre la dicotomia mentale di Giovanna, divisa tra cielo e terra, spiriti beati e spiriti infernali, rimane in superficie, la si vede, insomma, più che sentirla. Peccato per l’occasione irrisolta.

Mattia Marino Merlo

(26 gennaio 2025)

La locandina

Direttore Michele Gamba
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Luigi Biondi
Coreografie Manuela Lo Sicco
Personaggi e interpreti:
Carlo VII Luciano Ganci
Giovanna Nino Machaidze
Giacomo Ariunbaatar Ganbaatar
Delil  Francesco Congiu
Talbot Krzysztof Baczyk
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Maestro del Coro Martino Faggiani

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