Pavarotti, riflessioni sul docu-film di Ron Howard

Uscito nelle sale italiane per soli tre giorni dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il film di Ron Howard “Pavarotti” si propone come un grande ritratto a più voci del tenorissimo di Modena, pieno di pathos, musica, successi, positività, famiglia, donne, tradimenti e cucina, quella italiana naturalmente, che Big Luciano non mancava mai di far assaggiare ai suoi molti amici sparsi nel mondo.

“Che vita ha avuto Pavarotti?” si è chiesto il regista americano che, confessa, ha avuto difficoltà a scegliere cosa raccontare. Perché, spiega ancora Howard “la sua è stata una vita da opera, una vita come quelle che rappresentava sulla scena”.

Il film, prodotto da Polygram Entertainment, Imagine Entertainment e White Horse Pictures con Diamond Docs in collaborazione con TimVision e Wildside e distribuito da Nexo Digital in collaborazione con i media partner RTL 102.5, Classica HD, MYmovies.it, Rockol.it e Onstage non soddisfa che in parte le aspettative dei tanti ammiratori di Pavarotti, anche se molti hanno pianto per questo documentario che racconta quell’uomo dal “sorriso carismatico”, armato di popolare ottimismo, la cui storia è come una favola: da figlio di fornaio a superstar internazionale.

Un tenore capace di segnare profondamente il mondo dell’opera lirica e di vendere cento milioni di dischi nel corso di una carriera leggendaria, di rendere popolare l’opera, di mescolare musica classica e pop e di dedicarsi, nell’ultima parte della sua esistenza, alla beneficenza anche grazie all’amicizia con Lady Diana.

Con l’aiuto delle due famiglie di Pavarotti, il regista premio Oscar ha attinto a un enorme archivio di foto che fungono da fulcro del racconto. Scorrono così le immagini delle figlie di primo letto, Cristina, Giuliana e Lorenza, della loro madre Adua Veroni che con Pavarotti costruì famiglia e carriera, poi di Nicoletta Mantovani che patrocinò l’interesse di Big Luciano per la musica pop e dalla quale ha avuto Alice, ma anche le testimonianze di Bono Vox e soprattutto di Placido Domingo e José Carreras, ovvero degli altri due componenti quel trio nato in occasione dei Mondiali di calcio del 1990 a Roma che ha lasciato un indimenticabile Nessun Dorma a tre voci., ribattezzato da allora Vincerò.

Classe 1954, Howard ha esordito nel mondo dello spettacolo come attore, diventando famoso in tutto il mondo negli anni Settanta del secolo scorso grazie alla serie televisiva “Happy days”, nella quale interpretava il personaggio di Richie Cunningham, il miglior amico di Fonzie. Ha debuttato ufficialmente come regista nel 1977, ma il successo è arrivato solamente nel 1982 con “Night shift – Turno di notte. Con “Apollo 13”, nel 1995, è stato nominato a diversi premi Oscar.

Nel 2001 con “Beatiful mind” ha conquistato la statuetta come “miglior regista”. Il film, premiato come “miglior film”, ha permesso all’attrice Jennifer Connelly di vincere la statuetta come “miglior attrice non protagonista” e a Akiva Goldsman di ricevere il premio di “migliore sceneggiatura non originale”.

“Pavarotti” racconta il regista “era interessante come soggetto, perché era molto conosciuto nel mondo come artista, ma si sapeva ben poco della sua vita. Io, da non esperto di lirica, ho capito che la sua vita aveva qualcosa di analogo all’opera: in alcune sue esibizioni sentivo che cantava, ma anche che forse quella non era solo una recita, aveva invece un reale rapporto emotivo con la sua vita, così abbiamo costruito il film intorno a delle arie. La famiglia poi si è mostrata molto disponibile a essere intervistata e a darci accesso a un materiale inedito “.

Pavarotti non è il primo docu-film musicale diretto dal regista americano: nel 2016 Howard ha infatti firmato la regia di The Beatles: Eight days a week, documentario con il quale ha raccontato la scalata al successo del quartetto di Liverpool, dagli esordi fino all’ultimo concerto ufficiale a San Francisco nel 1966. Un soggetto, forse, più nelle sue corde.

Quanto al docu-film su Pavarotti, va riconosciuta a Ron Howard una capacità di saper raccontare il personaggio in modo stringente e in modo da tenere sempre desta l’attenzione dello spettatore. Non è un film per melomani, che troveranno il prodotto in qualche modo superficiale e noteranno l’assenza di molti collaboratori storici di Big Luciano e la presenza incongrua di altri, ma sa restituire con dovizia di particolari un personaggio all’americana che alla fine risulta simpatico e accattivante.

Rino Alessi

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