Pesaro: gli spettri di Rossini in Demetrio e Polibio

La prima opera di Rossini, Demetrio e Polibio (che poi, per vari motivi, non fu la prima rappresentata), nacque in un contesto produttivo molto particolare eppure caratteristico sia del costume teatrale che della popolarità dell’opera italiana nel primo decennio dell’Ottocento. Fu infatti commissionata a Bologna da una compagnia familiare, quella del tenore-impresario Domenico Mombelli, cantante di qualche notorietà anche fuori dall’Italia, il quale aveva costituito una sorta di Carro di Tespi lirico nel quale lavoravano (ovvero cantavano) le due figlie e il figlio, mentre alla moglie Vincenzina Viganò era affidato il compito di preparare i libretti. Il lavoro – in questo tipo di produzione – procedeva per assemblaggi successivi. Work in progress, si direbbe oggi, che in quanto tale permetteva di lavorare per scene “tipiche” (Arie di furore, elegiache, patetiche, guerresche), almeno in teoria facilmente utilizzabili anche in contesti diversi da quelli originali.

Questo metodo era anche una sorta di “cottimo operistico”: verso il 1809 a Bologna il diciassettenne Rossini produceva pezzi staccati su richiesta e veniva pagato volta per volta. Il che suscita naturalmente, anche se non era pratica insolita, qualche perplessità su come il giovanissimo compositore potesse costruire una continuità musicale e drammatica. Ciò nonostante questa prima prova, per quanto acerba, conserva un suo fascino che colpì gli spettatori dell’epoca (perché Demetrio e Polibio debuttò a Roma nel 1812 e poi ebbe anche qualche successiva rappresentazione, non solo in Italia), primo fra essi Stendhal. E anche se le moderne esecuzioni non possono evitare il senso di “collage” che promana dall’opera – con soluzioni drammatico-musicali così tipizzate da risultare inevitabilmente generiche, come generico e abborracciato è il fragile libretto – tuttavia si apprezza la mano precisa dell’operista agli albori della sua formidabile carriera, già sicuro nel maneggiare il linguaggio che gli arrivava dalla tradizione settecentesca, già personale nel “lavorarlo” non senza soluzioni significative, fra languori elegiaci (che tanto erano piaciuti a Stendhal) e accensioni drammatiche risolte in energia concitata e ritmicamente scandita, preannuncio di quello che diventerà un marchio caratteristico di questo autore.

Dopo averlo proposto una prima volta nel 2010, il Rossini Opera Festival torna a Demetrio e Polibio per la sua edizione numero 40, singolarmente partita fra la sontuosa maturità di Semiramide e due opere dei primissimi anni, visto che il trittico teatrale si completa con l’altrettanto giovanile Equivoco stravagante. Per il Demetrio si è scelto di recuperare la produzione di nove anni fa, che segnò il debutto pesarese del regista Davide Livermore, affiancato nell’occasione dall’Accademia di Belle Arti di Urbino per scene e costumi. Una lettura ironica e leggera, piena di una fantasia che si può ben definire opportuna, a fronte delle debolezze dell’opera sul piano drammatico: la vicenda viene immaginata come una sorta di racconto di fantasmi teatrali, che mentre si dipana la confusa Sinfonia avanti l’opera (pagina fra le più acerbe dell’intera partitura) sbucano fra gli attrezzi e le suppellettili di un retropalco alla fine di uno spettacolo, naturalmente invisibili agli addetti che animano la scena prima di chiudere tutto e andarsene, da ultimo anche il vigile del fuoco che controlla lo spegnimento di tutte le luci. Così, la confusa vicenda di due amorosi genitori, monarchi di esotici regni, e dei loro figli che convolano a nozze ma devono affrontare l’incomprensione dei rispettivi padri, tentativi di rapimento e minacce di guerra prima di coronare la loro felicità, si svolge in un’atmosfera un po’ magica e molto astratta, se non per la sua precisa collocazione dentro al mondo del teatro, fra bauli, elementi scenici che calano dall’alto, attrezzerie varie e guardaroba. Un meta-teatro sorridente e disimpegnato, che in certo modo rende bene l’artigianato molto pratico che all’inizio dell’Ottocento determinò la nascita di quest’opera, anche per quanto riguarda le sue musiche.

Sul podio della Filarmonica Gioachino Rossini, nell’unica produzione in scena nel piccolo e bellissimo teatro dedicato al compositore, è salito Paolo Arrivabeni, nome non nuovo nelle locandine del festival ma di fatto al suo vero debutto operistico rossiniano, dato che in passato ha diretto alcune farse non del pesarese e un concerto. La sua interpretazione ha cercato di mettere in evidenza i due poli espressivi della partitura, quello elegiaco e quelle concitato, con qualche pertinente tornitura di fraseggio nel primo caso (pur se l’orchestra non è parsa particolarmente duttile ed espressiva) ma soprattutto con qualche accensione di tempi e dinamiche nelle scene più drammatiche, più efficace nel secondo atto.

Compagnia di canto, a differenza di quanto era accaduto per la prima assoluta di nove anni fa, almeno per metà costituita da cantanti esperti e “specializzati”. Tale si è dimostrato Juan Francisco Gatell, Almaviva in due recenti Barbieri pesaresi, che ha dato al personaggio di Eumene la risentita eleganza del ruolo e una indubbia nobiltà di accenti, sottolineati dal suo timbro chiaro. Non altrettanto convincente la pur assai reputata belcantista Jessica Pratt nel ruolo di Lisinga, che ha pensato di risolvere la frequente irruenza del personaggio con forzature di emissione nel sovracuto (peraltro raggiunto molto agevolmente), che non hanno resto giustizia alla qualità del suo colore e alla consapevolezza stilistica della sua linea di canto. Sicuramente positiva la giovane trentina Cecilia Molinari, già allieva dell’Accademia Rossiniana, che ha cesellato con grande sensibilità, tinta seducente e indubbia efficacia in agilità il ruolo “en travesti” di Siveno, cui toccano le più significative pagine elegiache della partitura, fra le quali la Cavatina “Mi scende nell’alma”. È apprezzabile anche il basso Riccardo Fassi, debuttante assoluto al ROF, che è stato un Polibio dal fraseggio nobile e solido, sostenuto da un timbro corposo e duttile. Puntuale nei suoi brevi interventi ed efficace scenicamente il coro del Teatro della Fortuna istruito da Mirca Rosciani.

Teatro gremito, successo senza ombre. Repliche il giorno di Ferragosto e poi il 18 e il 23 agosto.

Cesare Galla
(12 agosto 2019)

La locandina

Direttore Paolo Arrivabeni
Regia Davide Livermore
Ripresa della Regia Alessandra Premoli
Scene e costumi Accademia di Belle Arti di Urbino
Luci Nicolas Bovey
Personaggi e interpreti:
Lisinga Jessica Pratt
Demetrio – Siveno Cecilia Molinari
Demetrio – Eumene Juan Francisco Gatell
Polibio Riccardo Fassi
Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Filarmonica Gioachino Rossini

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