Pesaro: il dramma borghese di Otello
Una tragedia di ambiente alto borghese, oggi. Un femminicidio nell’epoca in cui la violenza sulle donne sembra non trovare adeguate contromisure nella nostra società. La lettura che Rosetta Cucchi propone a Pesaro dell’Otello rossiniano non è un’attualizzazione di maniera, ma scaturisce dalla natura stessa di questo capolavoro per molti aspetti sbalorditivo. Prende atto cioè che di Shakespeare, come era stato notato immediatamente (il più sbalordito e perplesso era stato Stendhal, l’arcicantore del compositore), nel libretto di Francesco Berio di Salsa c’è poco, essendo la fonte non la versione originale della tragedia del Bardo, ma la sua traduzione in francese (alquanto aggiustata) da parte di Jean-François Ducis, che aveva largo – anzi, all’epoca (1816) esclusivo corso in Italia. Il risultato è che per almeno due atti, di Shakespeare in quest’opera c’è una versione quanto meno divagante, tale da modificare molti personaggi rispetto a come li vediamo oggi, che conosciamo l’originale e specialmente la sua versione melodrammatica a firma di Verdi-Boito. Assistiamo infatti ai drammatici sviluppi di un triangolo amoroso al cui centro si trova una fanciulla divisa fra l’amore (per Otello) e il dovere (l’obbligo morale di accondiscendere alla volontà del padre che l’ha destinata a Rodrigo). Triangolo nel quale il “perfido Iago” ha un ruolo non così determinante.
Date queste caratteristiche, si sviluppa invece – in maniera niente meno che straordinaria grazie alla formidabile tensione drammaturgica messa in campo qui da Rossini – un melodramma con molte caratteristiche pre-romantiche. Lo aveva acutamente chiarito Fedele D’Amico in un saggio fondamentale pubblicato nel 1988 sul programma di sala del primo Otello del Rof, con la regia di Pier Luigi Pizzi (che il festival festeggia in questi giorni per la sua quarantennale collaborazione).
Come le cose siano andate a finire, nello spettacolo di Rosetta Cucchi si vede fin dall’inizio, mentre risuona la Sinfonia avanti l’opera. La casa dove tutto si è svolto è ormai in vendita, e solo Emilia, la confidente di Desdemona, resta presente per trattare la cessione ad acquirenti a loro volta intrisi nella violenza di genere, che non esitano ad alzare le mani sulla donna che li accompagna, per un semplice screzio. Sullo sfondo – e nelle due grande specchiere che fungono da schermi per video-proiezioni di vario tipo – scorrono immagini di violenze e titoli di giornali che richiamano e sottolineano il tema: qui si tratterà dell’omicidio di una donna da parte di un uomo, che cercherà di difendersi dichiarando di essersi sentito escluso dalla società a cui bramava di appartenere.
Per i primi due atti, dunque, è il crescere di questo triangolo fatale che viene raccontato in maniera improntata anch’essa a un certo quale realismo borghese. Nel primo, la disposizione delle pedine della tragedia, se così si possono definire, avviene nel corso di una sontuosa cena elegante, che porta alla luce anche il fatale equivoco legato al messaggio amoroso di Desdemona, intercettato da di lei padre e creduto diretto a Rodrigo, non senza i decisivi intrallazzi di Iago. Nel secondo, la scena si rovescia: lo spettatore vede la zona riservata alla servitù di casa, mentre sullo sfondo la festa continua. È qui, fra armadi per la biancheria e un tavolo da stiro, presenti numerosi domestici, che la vicenda precipita nella formidabile successione di duetti e terzetti scolpita da Rossini: il confronto fra Desdemona e Rodrigo, fra quest’ultimo e Otello, fra questi e Iago, prima di arrivare al grande finale con la fanciulla contesa e il coro, preannuncia le grandi forme drammatiche che negli anni seguenti, al San Carlo di Napoli, il compositore andrà affinando in una collana di opere serie di taglio diverso ma di eguale forza espressiva dentro alla logica astratta del belcanto.
Al confronto con questa drammaturgia, la regia di Rosetta Cucchi (scene di Tiziano Santi, costumi di Ursula Patzak, luci di Daniele Naldi, elementi scultorei dell’Atelier Davide Dall’Osso) trova gli accenti che più coinvolgono: nel Finale II, il coro femminile è composto da una ventina di donne vittima di violenza, con le vesti insanguinate: un’immagine quasi da tragedia greca che sottolinea vigorosamente l’interpretazione scelta dalla regista.
Non per caso, lo spettacolo scorre invece in maniera meno convincente quando Shakespeare prende campo, nel terz’atto. La scena non muta rispetto al primo atto, e questo significa che Desdemona dovrà morire su un tavolo ormai sparecchiato e non nelle sue stanze, mentre le grandi aperture vocali della partitura – corrispondenti a un sottile scavo nella psicologia della giovane donna – vengono accompagnate e sovraccaricate con simbolismi di maniera (abiti da sposa sospesi che uno alla volta cadono al suolo), mentre gli specchi rimandano scene quasi oniriche, che passano dalle immagini di bambine a scuola di danza a una scena di femminicidio quasi splatter, in una miserrima cucina, vittima l’Isaura di cui Desdemona va raccontando la triste vicenda nella Canzone del Salice, che finisce accoltellata – lei di colore – da un Otello bianco in canottiera. Questa figura si materializza anche in scena, in una danza coreografata e interpretata da Yaimara Gomez.
Alla fine, il pubblico della prima rappresentazione alla Vitrifrigo Arena (che non era al tutto esaurito) si è diviso, come spesso accade: al suo apparire a proscenio la regista pesarese ha ricevuto molti convinti applausi ma anche una razione piuttosto robusta di dissensi.
Nessun dissenso, invece, ha accompagnato l’esecuzione musicale, sia nel corso dell’opera che alla fine. Dal podio, Yves Abel ha proposto una lettura di notevole peso strumentale, coinvolgente nei tempi, con scansioni ritmiche determinanti nel definire la temperatura drammatica, ben articolata nelle dinamiche e nel fraseggio. Autorevole la prova dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, impeccabile nel dare vita al linguaggio strumentale, raramente così articolato e denso di “peso teatrale”, qui disegnato da Rossini.
Compagnia di canto di alto livello. Al suo ritorno al ROF dopo quasi un decennio, Enea Scala è stato un Otello (non truccato di nero, secondo una prassi del resto presente talvolta anche nell’Ottocento) dalla linea di canto fortemente introspettiva, sostenuta da un convincente declamato. Pregevole l’efficacia sull’acuto, meno convincente la tenuta nella importante zona bassa di una parte scritta da Rossini per un “baritenore”, il celebre Andrea Nozzari. Svettante, con impeccabile controllo del colore e dell’agilità, il Rodrigo di Dmitry Korchak, abile nel disegnare l’ambigua parte di Iago l’esperto Antonino Siragusa, che la regia ha talvolta spinto a un gesto quasi caricaturale, peraltro emendato dalla precisa consapevolezza stilistica di questo cantante. Desdemona era Eleonora Buratto, che dopo il positivo debutto pesarese dell’anno scorso (Anaï in Moïse et Pharaon) ha confermato la sua vocazione rossiniana con una prova per molti aspetti emozionante, nella quale la purezza dell’emissione e l’efficacia di una coloratura sempre sotto controllo sono state misurate al calore di un’espressività raffinata, stilisticamente ben sorvegliata. Bene tutti gli altri, a partire dalla accorata e trasognata Emilia di Adriana Di Paolo, per continuare con il risentito Elmiro di Evgeny Stavinsky, l’elegante Gondoliero di Julian Henao Gonzalez, l’altero doge di Antonio Garés. Il coro, preciso e partecipe scenicamente, era quello del teatro Ventidio Basso, istruito da Giovanni Farina.
Le repliche sono in programma il 14, 17 e 20 agosto.
Cesare Galla
(11 agosto 2022)
La locandina
Direttore | Yves Abel |
Regia | Rosetta Cucchi |
Scene | Tiziano Santi |
Costumi | Ursula Patzak |
Personaggi e interpreti: | |
Otello | Enea Scala |
Desdemona | Eleonora Buratto |
Elmiro | Evgeny Stavinsky |
Rodrigo | Dmitry Korchak |
Iago | Antonino Siragusa |
Emilia | Adriana Di Paola |
Lucio / Gondoliero | Julian Henao Gonzalez |
Doge | Antonio Garés |
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI | |
Coro del Teatro Ventidio Basso | |
Maestro del coro | Giovanni Farina |
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