Pesaro: la dignità ritrovata di Eduardo e Cristina
Vittima delle “fake news” di Stendhal (e non solo lui), quasi subito relegato nel ruolo minore, anzi minimo, di “pastiche” senza arte né parte, nonostante un buon successo iniziale e almeno un ventennio di discreta presenza sui palcoscenici italiani, Eduardo e Cristina (Venezia, teatro di San Benedetto, 24 aprile 1819) è stato fino a ieri l’elemento più trascurato nella prodigiosa rassegna dei 39 titoli operistici di Gioachino Rossini. È sintomatico che anche a casa sua, nella Pesaro del festival a lui dedicato, quello italiano che più si è conquistato (in 44 edizioni) prestigio e ruolo di livello internazionale, questo lavoro abbia dovuto attendere l’inaugurazione di venerdì per approdare per la prima volta sulla scena. Era l’anello mancante alla collana dell’opera omnia operistica, ora finalmente completata dal ROF. E la proposta – per la prima volta in assoluto nell’edizione critica a cura di Andrea Malnati e Alice Tavilla – ha dimostrato che l’assenza di Eduardo e Cristina era una lacuna a tutti gli effetti da colmare.
Lo aveva intuito Giovanni Carli Ballola, che in anni in cui la rappresentazione pesarese era ancora lontana, nello smontare una “vulgata” storico-musicologica a lungo dominante, affermava che quest’opera «è qualcosa di più di un’opera-centone di tipo corrente o corrivo, destinata al botteghino. È un’operazione di riciclaggio entro efficaci contenitori teatrali di materiali alieni di diversa caratura, riutilizzati al meglio della loro potenzialità di “atmosfera morale” e al posto giusto, nell’ambito di una precisa strategia drammaturgica. Di tutto ciò potrebbe dare conferma un suo auspicabile ritorno alle scene».
La rappresentazione pesarese ha confermato. Eduardo e Cristina è un dramma musicale coerente e approfondito, che pur essendo costituito in misura preponderante da materiali provenienti da opere di poco precedenti, come – in ordine decrescente di presenza – Adelaide di Borgogna, Ermione, Ricciardo e Zoraide e Mosè in Egitto, dimostra che nei casi migliori (come questo appare) la tecnica dell’autoimprestito si basa in Rossini su una sapiente rielaborazione delle pagine di origine e sfocia in un risultato di organica quanto pratica autonomia. Così, può accadere che un libretto di Giovanni Schmidt già intonato nel 1810 da Stefano Pavesi assuma (anche grazie a una serie di elaborazioni cui parteciparono Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini) una densità inusitata nel raccontare l’incombente tragedia di due sposi segreti. Si tratta del vittorioso condottiero delle armate svedesi e della figlia del re di Svezia, che vengono scoperti insieme al figlioletto nato dalla loro unione, quando il padre di lei decide di concederne la mano a un principe scozzese. Si innesca qui il rigore morale e sentimentale dei due protagonisti, ciascuno a rischio di pena capitale ma disposto al sacrificio a favore dell’altro. Solo il tentativo di conquista di Stoccolma da parte della flotta russa, che rimetterà in luce il valore di Eduardo e risolverà la battaglia a favore della Svezia, permetterà il lieto fine di prammatica e lo scioglimento di tutti i nodi. Appare evidente che il clima del nuovo lavoro è stato plasmato da Rossini con efficace e a tratti rivelatrice attenzione al “carattere” delle quattro opere per così dire “di partenza”, in una combinazione che non si può definire altrimenti che virtuosistica, fra stile e specificità dell’invenzione. Fino a delineare un sapiente dosaggio di elementi tragici, eroici e morali, secondo una drammaturgia singolarmente coinvolgente.
Si è incaricato di dipanarla Stefano Poda, che ha fatto così il suo debutto al Rossini Opera Festival, come d’abitudine firmando l’allestimento in ogni suo aspetto: regia, scene, costumi, luci e coreografie. Dopo una fremente Sinfonia, che va annoverata fra le maggiori riuscite in quest’ambito del Pesarese ed è una sorta di esemplare manifesto delle sofisticate tecniche di collazione ed elaborazione degli autoimprestiti adottate dal compositore (le “derivazioni” dall’analoga pagina di Ricciardo e Zoraide per il Moderato iniziale e di Ermione per il Crescendo portano a un clima drammatico del tutto originale), la scena svela un’immagine fedele alla poetica dell’installazione artistica, sempre propugnata dall’uomo di teatro trentino. Immaginario onirico, a tratti virante all’incubo, certamente astratto: il fondo del palcoscenico è interamente chiuso da un’alta parete nella quale frammenti della scomparsa civiltà classica (statue e architetture a pezzi) sembrano coagulati in una sorta di colata lavica; ai due lati, sovrapposte, numerose urne trasparenti in plexiglas mostrano cadaveri calcinati, mummificati. Il tema della morte (per la guerra e come conseguenza delle azioni individuali) è certo dominante in Eduardo e Cristina, ma ben presto si capisce che l’obiettivo di Poda è piuttosto quello di concretizzare l’aspra complessità del percorso soggettivo dei tre protagonisti (i due sposi segreti e il padre di lei), offrendone una sorta di proiezione nella quale l’aspetto onirico confluisce in quello della proiezione psichica degli incubi e alla fine delle speranze dei personaggi, abbigliati con abiti sostanzialmente neutri per colore e foggia. In questa logica, determinante è l’apporto della folta compagnia di diciotto danzatori, che quasi incessantemente circondano e accompagnano i personaggi, realizzandone gestualmente le psicologie. Il percorso è scandito con rigore: nel secondo atto, cubi o parallelepipedi di plexiglas prendono il centro della scena, ciascuno contenente un pezzo di statua: il “montaggio” di questi elementi darà il segno del lieto fine, delineando infine una duplice statua di amanti strettamente abbracciati.
Lo spettacolo è carico, non di rado sovraccarico, e sconta una certa inevitabile genericità funzionale del messaggio anche se regala dettagli di qualità, specialmente per le soluzioni coreografiche ideate a sostegno delle grandi pagine vocali solistiche. Del resto, questo è lo scopo di Poda, chiaramente indicato nelle note di regia: «Non bisogna cercare di rendere attuale Eduardo e Cristina, ma universale: non investigare facili messaggi o azzeccate interpretazioni, bensì domande. Trattare quest’opera come un’opera d’arte contemporanea e trasformarla in un poema sull’alterità». Forse il neobarocco postmoderno è una soluzione, di certo l’affollamento in scena libera dalla necessità di dare soverchio spessore teatrale ai personaggi, costantemente immersi nella piccola folle di abili danzatori che hanno il compito di “raffigurare” il loro sentire.
Sul podio di questa prima pesarese, ovviamente super-integrale (sono state proposte anche le due Arie probabilmente apocrife dei personaggi secondari, che l’edizione critica dispone in appendice), è salito Jader Bignamini, che ha guidato un’esecuzione tesa, di stile sicuro, ritmicamente sempre assai scandita, ricca di sfumature timbriche cui l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai ha corrisposto assai bene e di contrasti dinamici efficacemente teatrali.
Il duello belcantistico fra i tre protagonisti principali, il re Carlo, il condottiero Eduardo e la principessa Cristina, si è risolto probabilmente a favore del tenore Enea Scala, già l’anno scorso applaudito Otello a Pesaro. Dalla sua, il timbro franco, lo squillo sicuro, l’inappuntabile incisività nel delineare la coloratura, la forza espressiva sempre commisurata alla tensione drammatica di cui il suo personaggio è l’incarnazione.
Positivo il debutto del trentaduenne soprano Anastasia Bartoli, sulle orme di mamma Cecilia Gasdia, che una quarantina di anni fa si affermava come rossiniana d’elezione al neonato ROF. Difficile dire se nel prosieguo della carriera di questa cantante Rossini avrà una parte importante. Per il momento il suo repertorio è multiforme e non specialistico. La voce è cospicua e interessante, più drammatica che lirica, dal colore tagliente; nella parte di Cristina, sicuro l’impegno nel dipanare l’ardua linea di canto rossiniana, fra agilità risolta con misura ed efficace tensione espressiva, non sempre impeccabile il controllo nella zona alta della tessitura, positiva anche se talvolta un po’ “frenata” la presenza scenica.
Impeccabile stilista – come vuole la sua straordinaria quasi trentennale vicenda di interprete rossiniana – si è confermata Daniela Barcellona, mezzosoprano specializzato nei ruoli en travesti come quello di Eduardo. L’agilità e l’uniformità restano i suoi cavalli di battaglia, esaltati dal bel colore ambrato della sua voce e supportati da un fraseggio di esemplare equilibrio, anche se non sempre nella zona alta della tessitura il colore e la forza sono sembrati impeccabili. Positivi i due comprimari, il basso russo Grigory Shkarupa nella parte del principe Giacomo di Scozia e il tenore Matteo Roma in quella dell’attendente di Eduardo, Atlei. Ammirevole scenicamente – per le complesse evoluzioni richieste dalla regia – ed equilibrato musicalmente il coro del teatro Ventidio Basso istruito da Giovanni Farina.
Alla Vitrifrigo Arena – dove si terranno tutte le proposte operistiche del ROF di quest’anno per il restauro in corso al Teatro Rossini – sala affollata e franchi consensi per tutti i protagonisti della serata. Le repliche sono in programma il 14, 17 e 20 agosto.
Cesare Galla
(11 agosto 2023)
La locandina
Direttore | Jader Bignamini |
Regia, scene, costumi, luci e coreografie | Stefano Poda |
Regista collaboratore | Paolo Giani |
Personaggi e interpreti: | |
Carlo | Enea Scala |
Cristina | Anastasia Bartoli |
Eduardo | Daniela Barcellona |
Giacomo | Grigory Shkarupa |
Atlei | Matteo Roma |
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai | |
Coro del Teatro Ventidio Basso | |
Maestro del Coro | Giovanni Farina |
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