Pesaro: l’atmosfera morale di Bianca e Falliero

Fra le riscoperte di maggiore lignaggio intestate al Rossini Opera Festival c’è sicuramente Bianca e Falliero, opera seria scritta dal pesarese per l’inaugurazione della stagione 1819-1820 della Scala di Milano. Il melodramma su libretto di Felice Romani, accolto alla prima con esito contrastato e giudicato severamente dalla critica, ebbe una notevole serie di 39 rappresentazioni consecutive, ma nel giro di qualche decennio scomparve dai palcoscenici, per riapparirvi solo dopo quasi un secolo e mezzo, nel 1986, all’Auditorium Pedrotti che era allora uno degli spazi di spettacolo del festival pesarese. Protagoniste della “rinascita” furono Marilyn Horne e Katia Ricciarelli, sul podio c’era Donato Renzetti, la regia era firmata da Pier Luigi Pizzi. La quasi immediata ripresa al ROF di questo spettacolo (diversi gli interpreti vocali, direttore un ventottenne Daniele Gatti) poteva sembrare il segnale che questo lavoro complesso e affascinante si stava avvicinando non si dice al repertorio, ma a una consuetudine più concreta. In realtà, da quel 1989 dovevano passare 15 anni prima che il titolo tornasse nella programmazione pesarese e altri 19 anni separano quello spettacolo da quello che mercoledì ha inaugurato la 45ª edizione del ROF, versione “arricchita” della rassegna nell’anno in cui la città marchigiana è capitale italiana della cultura.

Bianca e Falliero rimane dunque, per così dire, in seconda fila. Riscoperto il tesoro una quarantina di anni fa, lo si centellina ora con una certa circospezione.

Rossini aveva messo mano alla partitura in un’annata di lavoro incessante e non sempre salutato da eguale successo. Il suo impegno al San Carlo di Napoli era nel pieno di una fase creativa straordinaria e talvolta misconosciuta. Nella primavera, ad esempio, era miseramente caduta Ermione (pure nel programma di quest’anno al ROF), incursione affascinante per profondità e sintesi drammatica nel genere tragico puro. Ma due mesi prima del debutto scaligero aveva trionfato La donna del lago, con il suo clima di idillio sentimentale sul versante patetico.

Bianca e Falliero si muove lungo coordinate molti diverse ma non meno affascinanti. In questa sorta di incunabolo della Semiramide, che sarebbe venuta di lì a tre anni o poco più, si delinea in maniera già nettissima la poetica della cosiddetta “atmosfera morale”, secondo la quale – per il compositore – la musica “riempie il luogo in cui i personaggi del dramma disegnano l’azione”, proponendosi “un fine più elevato, più ampio, più astratto” di quanto non sia consentito alle parole.  Una tesi cara al musicologo Giovanni Carli Ballola, che ne aveva fatto una sorta di filo rosso per la sua fondamentale ricognizione sulle opere rossiniane (Bompiani, 2009). E molto opportunamente il programma di sala di questa edizione riprende, come omaggio a meno di un anno dalla sua scomparsa, il suo saggio su quest’opera.

L’atmosfera morale con cui Rossini delinea musicalmente la densa vicenda di un amore proibito dalla ragion di Stato e dalle convenienze sociali nella Venezia secentesca, peraltro fino al suggello del lieto fine, ha l’aspetto di scelte musicali per certi aspetti ormai inattuali nel secondo decennio dell’Ottocento: le forme vocali tradizionali (arie, duetti, concertati) sono centrali, lo stile del belcanto dominante e onnipresente. La scrittura strumentale offre spesso una peculiarità espressiva di grande risalto, ma il contesto vocale è quello di un’astrazione che finisce per assumere un rilievo quasi di speculazione filosofica trascendentale rispetto alle vicende “umane troppo umane” che si dipanano sulla scena, specialmente in un secondo atto nel quale arrivano a tagliente soluzione i nodi drammaturgici delineati nel lunghissimo atto iniziale (anche in questo caso, un’anticipazione delle dimensioni quasi anti-rappresentative che saranno proprie della Semiramide).

Bianca e Falliero è andata in scena in quella che era una delle sedi storiche del ROF, il suo palafestival, dai primi Duemila chiuso per lavori apparentemente senza fine, oggi finalmente recuperato e ribattezzato Auditorium Scavolini. Se nel 2005, all’ultima apparizione dell’opera, lo spettacolo (andato in scena al teatro Rossini) puntava sulla venezianità in maniera monumentale (con un onnipresente leone di San Marco) ma aveva diviso il pubblico, che aveva espresso un chiaro dissenso nei confronti del regista, questa volta Venezia praticamente è solo nelle parole dei personaggi.

L’ambientazione dell’allestimento firmato da Jean-Louis Grinda (scene e costumi Rudy Sabounghi, luci Laurent Castaingt) risulta spoglia, a scena quasi fissa con pochi elementi scomponibili che vengono variamente spostati. Non c’è caratterizzazione locale – a non voler considerare tale le schermate di vaghi panorami lagunari generici sullo sfondo nel secondo atto – né la cronologia è precisa, anche sei i costumi e le videoproiezioni di carattere bellico durante il primo atto suggeriscono un contesto novecentesco. La scelta narrativa è improntata a una voluta fissità – così elaborata sul piano scenico, evidentemente la scelta rossiniana di poetica musicale cui si accennava. Il clou si ha nel finale – in cui il lieto fine si scioglie musicalmente nell’Aria di Bianca – che è poi, pur rielaborata, quella di Elena nella Donna del Lago. Qui, la protagonista canta le sue astrali colorature di felicità e tutti i personaggi, in maniera volutamente anti-teatrale, restano come congelati.

Per il resto, la non azione rispetta ovviamente la partitura rossiniana ma non offre chiavi di lettura e non risolve, anzi accentua la sostanziale lentezza della drammaturgia. Rimangono immagini di non particolare suggestione: nella sua Aria di sortita, la protagonista canta fra cesti degni di una bottega di fioraio più che di un ameno palazzo veneziano; il colpo di scena durante il processo a cui il Consiglio dei tre sottopone Falliero vede l’eroina entrare avvolta in un trench da tenente Sheridan. Ma soprattutto, resta il grande interrogativo su chi sia la vecchia – muta ma irosa presenza, occhiali scuri inforcati – che accompagna Bianca fin dalla sua prima apparizione. Un gesto affettuoso del padre di lei ha indotto chi scrive a supporre che si tratti della nonna. Ma potrebbe anche essere una sorta di “doppio” della protagonista. Perché Grinda l’abbia inventata, non sapremmo dire. Le note di regia non offrono una spiegazione al proposito.

Musicalmente, esecuzione di livello, con la sua punta di diamante nell’eccellente concertazione offerta dal direttore Roberto Abbado, alla testa di un’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai in forma smagliante. Interpretazione di ammirevole lucidità stilistica, duttile nelle dinamiche e nel pensiero espressivo, accorta negli accompagnamenti alle scalate belcantistiche dei personaggi, incisiva nei recitativi accompagnati di forte valenza drammaturgica ed efficace in quelli secchi, che costellano l’opera.

Compagnia di canto equilibrata, stilisticamente sorvegliata. Bianca ha avuto la voce svettante del soprano Jessica Pratt, belcantista di alto lignaggio che ha risolto le asperità della parte con precisione e tenuta pressoché indefettibile in tutte le zone della tessitura. Molto agile nell’emissione il mezzosoprano Aya Wakizono, un Falliero dal colore abbastanza chiaro al quale è parso più consentaneo il versante sentimentale drammatico che emerge nel secondo atto (esemplare la sua gran scena in prigione) di quello eroico e “politico” che prevale nella prima parte dell’opera. Nei panni di Contareno, il padre di Bianca, il tenore Dmitry Korchak ha messo in mostra una vocalità di notevole forza musicale sia sul piano del colore che dell’agilità, senza problemi sull’acuto, sciorinando un fraseggio denso e drammaticamente ben connotato. Nobili accenti ha proposto, con eleganza, il basso Giorgi Manoshvili nella parte di Capellio, che rinuncia alla fine ad impalmare Bianca. Positivi tutti i comprimari: Nicolò Donini (Priuli) Carmen Buendía (Costanza), Claudio Lazzaro e Dangelo Díaz; ben presente con precisione il coro del teatro Ventidio Basso istruito da Giovanni Farina.

Alla prima, larghi vuoti nelle tribune laterali dell’Auditorium Scavolini, del resto posizionate in zone con visibilità della scena non ideale. Platea al completo e pubblico piuttosto numeroso sugli erti gradoni della tribuna centrale, che si raggiungono inerpicandosi su alti gradini privi di corrimano e sono dotati di strapuntini alquanto spartani. Applausi a scena aperta in varie occasioni, accoglienze positive ma non propriamente entusiastiche (se non forse per Jessica Pratt) alla fine per i cantanti e di cortesia per lo staff di regia. Repliche l’11, 14 e 19 agosto.

Cesare Galla
(7 agosto 2024)

La locandina

Direttore Roberto Abbado
Regia Jean-Louis Grinda
Scene e costumi Rudy Sabounghi
Luci Laurent Castaingt
Personaggi e interpreti:
Priuli Nicolò Donini
Contareno Dmitry Korchak
Capellio Giorgi Manoshvili
Falliero Aya Wakizono
Bianca Jessica Pratt
Costanza Carmen Buendía
Ufficiale / Usciere Claudio Zazzaro
Cancelliere Dangelo Díaz
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del Coro Giovanni Farina

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