Piacenza: il barocco futuribile del Tamerlano
Il “pasticcio” si addice a Vivaldi; si pensi ad esempio all’Inganno trionfante in amore, o alla Dorilla in Tempe e ancora alla tarda Rosmira Fedele, ma soprattutto al Tamerlano composto su commissione della veronese Accademia Filarmonica – sul libretto che Agostino Piovene aveva scritto nel 1711 e già più volte intonato – e andato in scena, insieme all’Adelaide, durante il Carnevale del 1735.
Vivaldi venne richiamato dai Filarmonici dopo tre anni di assenza – la sua ultima apparizione veronese risaliva al 1731 quando aveva presentato La fida ninfa su libretto del veronese cosmopolita Scipione Maffei e ancora una volta il Prete Rosso seppe sfruttare con sottile intelligenza la situazione lavorando a produzioni che non prevedessero esborsi eccessivi di denaro da parte della committenza ma fossero in ogni caso di alto livello.
Con il Tamerlano – questo il titolo “ufficiale” dell’opera sul libretto a stampa, ma Bajazet sull’autografo – Vivaldi sembra volersi togliere qualche sassolino dalle scarpe stigmatizzando il calante interesse di Venezia nei suoi confronti componendo, o meglio assemblando, un’opera in cui la figura di maggior nobiltà è quella del sovrano spodestato rispetto a quella di Tamerlano.
Perché un “pasticcio” e non un lavoro completamente nuovo? A questo punto è necessario fare chiarezza e rispondendo con un “e perché no?”: nel diciottesimo secolo il genere era considerato una forma d’arte perfettamente accettabile e ampiamente usata.
Di più: il “pasticcio” non è una semplice sequenza di arie giustapposte, ma al contrario richiede da parte dell’autore un lavoro minuzioso di adattamento e revisione di ciascun numero musicale di modo da calzare perfettamente alla drammaturgia e al libretto scelto.
L’operazione Tamerlano – realizzata nell’ambito di una coproduzione virtuosa fra Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Valli di Reggio Emilia, Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena e Teatro del Giglio di Lucca – riesce perfettamente risultando del tutto convincente sia dal punto di vista dell’allestimento che da quello musicale.
Stefano Monti cala l’azione in una sorta di Barocco futuribile in cui l’elemento scenico così come i costumi ferrigni e screziati di rosso richiamano le atmosfere stranianti di Metropolis ma pure la barbaricità post-nucleare della saga di Mad Max.
Un praticabile sospeso e mobilissimo diviene podio, tavola, altalena in un continuo mutare di altezza e inclinazione; sul fondo i video 3D realizzati da Cristina Ducci – efficaci e talora vagamente splatter –, le sculture di giunchi realizzate da Vincenzo Balena, le illustrazioni di Lamberto Azzariti e la pittura su tela di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti contribuisco a creare un’atmosfera di mutevole e intrigante indeterminatezza.
Essenziale e determinante nell’economia dello spettacolo la parte coreografica immaginata da Marisa Ragazzo e Omid Ighani che affidano ai danzatori della DaCru Dance Company il compito non solo di fungere da “doppio” dei diversi personaggi – agendo talora in sintonia, altre volte in contrasto – ma anche da servi di scena, il tutto in un susseguirsi di movimenti incalzanti e fluidi.
Alla testa della sua Accademia Bizantina – posta filologicamente sotto il palcoscenico all’altezza della platea e dal suono croccante – Ottavio Dantone offre una lettura di luminosità coinvolgente incardinata su ritmi incalzanti che cedono il passo, ove necessario, ad abbandoni trasognati, il tutto con scelte agogiche meditatissime. Ulteriore lode merita il meraviglioso lavoro di cesello fatto sui recitativi, che nell’opera barocca non sono un “di più, anzi.
Onore e gloria, ancora una volta, ad Alessandro Tampieri, “spalla” stellare.
Non è da meno la compagnia di canto – in parte proveniente dalla registrazione discografica del 2020 – che si rende protagonista di prove maiuscole.
Nel ruolo-titolo Filippo Mineccia si conferma fraseggiatore di rango e interprete raffinato disegnando un Tamerlano volitivo, a tratti caparbio, eppure fragile, il tutto poggiato su una linea di canto impeccabile.
Non gli è da meno Bruno Taddia nei panni dell’antagonista Bajazet che il baritono pavese rende con ricchezza di accenti ed un’ammirevole attenzione alla parola detta ancor prima che cantata.
Delphine Galou, annunciata come indisposta prima dell’inizio della recita, si dimostra ancora una volta interprete di rara sagacia disegnando un’Asteria ben sfaccettata e sempre in bilico tra amore e dovere filiale.
Sugli scudi l’Andronico nobile e disperato di Federico Florio, sopranista la cui voce sembra essere stata benedetta da tutte e nove le muse insieme, così come sontuoso l’Idaspe della sempre bravissima Giuseppina Bridelli e ben disegnata l’Irene di Shakèd Bar.
Al termine applausi convinti e meritati per tutti da parte del pubblico piacentino – moltissimi i giovani – e bis del sestetto finale.
Alessandro Cammarano
(20 gennaio 2023)
La locandina
Direttore al clavicembalo | Ottavio Dantone |
Regia, scene e costumi | Stefano Monti |
Luci | Eva Bruno |
Coreografie | Marisa Ragazzo, Omid Ighani |
Contenuti video / 3D | Cristina Ducci |
Pittura su tela | Rinaldo Rinaldi, Maria Grazia Cervetti |
Illustrazioni | Lamberto Azzariti |
Sculture | Vincenzo Balena |
Personaggi e interpreti: | |
Tamerlano | Filippo Mineccia |
Bajazet | Bruno Taddia |
Asteria | Delphine Galou |
Andronico | Federico Fiorio |
Irene | Shakèd Bar |
Idaspe | Giuseppina Bridelli |
Accademia Bizantina | |
DaCru Dance Company |
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