Portoferraio: Martha Argerich, regina di una notte all’Elba

Ci sono tanti eccellenti motivi per far visita all’Elba e ben lo sapeva, più di duemila anni fa, Publio Virgilio Marone. Eppure, per molti, la più nota dell’arcipelago toscano, resta sostanzialmente l’isola di Napoleone, dove nel 1814, il di fatto detronizzato imperatore dei francesi scelse di accasarsi, così da non essere troppo lontano dalla natìa Corsica. Oggi all’Elba ci si va anche per un festival di musica, la cui qualità è primariamente garantita dalla presenza di Martha Argerich, la pianista svizzero-argentina che a soli sedici anni vinse nel 1956 il Busoni (e nove anni dopo lo Chopin di Varsavia) e che per tanti decenni ha continuato e continua a elargire classe pianistica cristallina, con una personalità tutta sua propria.

Il programma, con cui si apriva il 28° festival elbano con Argherich protagonista, rimandava, bene o male, al prima e al dopo Napoleone: Mendelssohn nacque giusto pochi anni prima dell’autoesilio all’Elba; Beethoven eseguì per la prima volta il suo Concerto n. 1 nelle città della Mitteleuropa, in contemporanea con la campagna d’Italia. Ma tra Napoleone all’Elba e il trio di Mendelssohn ci sta di mezzo il mare, cioè il congresso di Vienna, Waterloo e Sant’Elena.

Nel 1839, l’anno in cui compone il suo primo trio per violino, violoncello e pianoforte, Felix Mendelssohn è un trentenne che da quattro anni vive e lavora a Lipsia, la città di Bach dove in poco tempo diviene, in qualche modo, il musicista di riferimento di quella nuova generazione che si definirà romantica (era nato nel 1809, un anno prima di Chopin e Schumann, due prima di Liszt; caso a sé faceva Wagner che era comunque del 1813, mentre – si è detto – del 1814 sono l’autoesilio napoleonico all’Elba e il congresso di Vienna).
Di quel gruppo, Mendelssohn era il più posato, per certi versi il più conservatore, votato allo spirito nazionale (musicalmente unificato da Bach), incorniciato in una natura rassicurante, sostenuto dai frequentatori dei salotti musicali della nascente borghesia.
E questo trio in re minore, in quattro movimenti (con l’Andante al secondo e lo Scherzo al terzo), sembrerebbe proprio un po’ lo specchio di un romanticismo più cauto che passionale, si direbbe più razionale che tendente a uscire dalle regole classiche. Almeno sulla carta perché, nella realtà dei fatti, nel Romanticismo conviveva tutto e il suo contrario.

E ben lo sa anche Marta Argerich che, in trio con Liana Gourdjia, violino, e Raphael Bell, violoncello, sin dal valzer iniziale, davvero reso “molto allegro e agitato”, si presenta per come lei sente oggi “romanticamente” la musica: aumentando appena può di qualche punto il metronomo, accentando le doppie sincopi ma non dimenticando la ballabilità di quella danza. Quanto a idee, Argerich è un fiume in piena: gestione delle dinamiche e delle agogiche, archi delle frasi (e delle semifrasi), accenti, sottolineature, scambio dialogico dei ruoli fra prima, seconda e terza parte. Di idee ne ha fin troppe, tanto che la brava Gourdjia molte le coglie e molte no. Il legame musicale è molto più complice fra Gourdjia e Bell che, soprattutto nell’Andante, si scambiano il testimone in alcuni punti sin quasi a sembrare l’una il prolungamento dell’altro.
La cantabilità di Martha Argerich nell’Andante le viene da dentro: è un repertorio che è suo, pensato, ripensato, maturato, definitivo. Ma è dallo Scherzo (un 6/8 che sembra l’accelerazione del valzer iniziale) che spinge il trio a una foga combinata fra ritmo, energia e passione, davvero dentro a un romanticismo che pare andare oltre Mendelssohn: nel finale i voli degli arpeggi che rispondono agli archi sono come nuvole sonore ben oltre la visionarietà di Chopin.

Dove sta e dove va oggi Martha Argerich? Per capirlo, proviamo a immergerci nel Beethoven del primo concerto, quello dell’ultima decade del ‘700. Intorno ai venticinque anni, il giovane Ludwig è un virtuoso che intende far bella mostra di sé anche come pianista per il pubblico dell’alta società. Ha assorbito il linguaggio (e i moduli, le maniere i trucchi del mestiere) e la bellezza dei concerti mozartiani ma anche del mondo di Haydn del quale è stato allievo tra i ventidue e i ventiquattro anni. E tuttavia Beethoven comincia ad essere sé stesso anche con questo concerto in do maggiore op. 15 che lui, non casualmente, amava particolarmente, tanto che lo eseguiva spesso (soprattutto in quella lunga tournée che lo portò, fra le altre, a Berlino, Dresda, Praga, Budapest) anche prima della stesura finale, e tanto da fargli meritare la pubblicazione e la numerazione in catalogo di numero uno fra i concerti, quantunque non si trattasse del suo primo.
Perché lo amava tanto? Si direbbe perché, in quel momento, lo rappresentava più di altre sue opere: c’erano i suoi eroi, Mozart e Haydn, ma c’erano anche le sue fughe in avanti (per esempio le piccole progressioni cromatiche nel primo movimento), anche la non usuale scelta armonica del Largo centrale in La bemolle in fondo non così lontana (tecnicamente la tonalità “d’inganno” della parallela e già amata Do minore), l’umorismo un po’ alla turca del terzo movimento che già fa presagire il primato beethoveniano del ritmo e che doveva piacere un sacco al pubblico slavo amante dell’oltre-Danubio.
Anche Martha Argherich ama tantissimo questo concerto che ha in repertorio da sempre (ma cos’è che non ha in repertorio la Argherich?) e che, in particolare negli ultimi anni, predilige nei suoi programmi sinfonici.
Al Teatro dei Vigilanti, Argerich torna sul palco con l’orchestra del festival e quindi ancora con Liana Gourdjia, spalla, e Raphael Bell, primo violoncello, che si dispongono fra di loro vicini (i cinque violini primi accanto ai celli). Se già lo era con Mendelssohn, qui, col primo Beethoven, Argherich è ancor di più a casa sua. È un bellissimo capitolo chiuso quello in cui, da giovane, diretta da Sinopoli, cercava il suono nota per nota; oggi, nella saggezza di una maturità espressiva ineguagliabile, ha deciso che il Beethoven del XXI secolo sarebbe, se possibile, ancor più ritmico. Nel Rondò conclusivo, con tutta l’orchestra e i suoi fiati eccellenti, con Liana Gourdjia perfettamente a suo agio coi ritmi slavi e una danzabilità più balcanica che turca, Raphael Bell e la basseria che si divertono proprio a rispondere con gli accenti per aria. Ma è Goran Bregović o il nuevo tango? O persino la coda della coltraniana “My Favorite Things” che si era intrufolata fra le quinte discendenti del primo valzer? No, no. È semplicemente Martha Argerich che, in un tutt’uno con l’agilissimo Fazioli, postura sobria ed eterea insieme, mani che vanno scioltissime in barba alle insidie del tempo, è lei che suona il suo Beethoven, che diventa nostro e di tutti, in una magica notte elbana.

Riccardo Brazzale
(30 agosto 2024)

La locandina

Pianoforte Martha Argerich
Violino, concertatrice Liana Gourdjia
Violoncello Raphael Bell violoncello
Elba Festival Orchestra
    Programma:
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Trio per pianoforte, violino e violoncello n. 1, op. 49
Ludwig van Beethoven
Concerto per pianoforte e orchestra n. 1, op. 15

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