Prima le parole, poi la musica

Lorenzo Bianconi parla del madrigale come di “un morbo contagiosissimo e tenacissimo” che fra il 1520 e il 1620 rasentò il “predominio monoculturale”. E prosegue con una stima vertiginosa: “Se sono quaranta o cinquantamila i madrigali apparsi a stampa, quanti ne saranno stati composti e quanti cantati, nei palazzi d’Italia sull’arco di quei cent’anni?”. Aggiungiamoci pure certi avamposti della cultura italiana come Lione, Monaco, Vienna e Londra, dove l’epidemia produsse spettacolari retro-infezioni, giacché i suoi primi germi erano giunti proprio da oltralpe con quella generazione di polifonisti franco-fiamminghi che a partire dal tardo ‘400 aveva colonizzato le nostre cappelle musicali: Heinrich Isaac, Josquin Desprez, Jacob Obrecht e Antoine Brumel sono gli astri maggiori di una folta schiera migrante fra Milano, Ferrara, Mantova, Firenze e Roma. Nel tempo libero dalla composizione di Messe e mottetti latini, i loro principeschi datori di lavoro li tenevano occupati con sonetti, canzoni e ballate in volgare. Tema prevalente: l’amore, autore di riferimento il Petrarca, rimesso di moda dagli scritti di Pietro Bembo. 

Tra le forme poetiche musicabili il madrigale emerse presto come il più duttile: conciso e privo di ripetizioni, allineava perlopiù endecasillabi e settenari senza stretti obblighi di rima, a parte quella baciata conclusiva. In questa forma poetica leggera i polifonisti oltremontani e i loro allievi italiani iniettarono i moduli contrappuntistici “pesanti” derivati dal mottetto isoritmico, alternati a quelli più amabili della chanson francese: agile scansione ritmica, sezioni omofoniche, e quei giochi descrittivi che i futuri studiosi battezzeranno appunto “madrigalismi”. 

L’attenzione al rapporto fra parola e musica è il primo caposaldo del genere madrigalesco. Le scelte di scrittura musicale dipendono dal testo poetico, di cui si deve rispettare la prosodia impiegando note lunghe per gli accenti ritmici del verso e note brevi sulle sillabe atone. In risposta agli “affetti” e al senso delle parole, profilo e ritmo delle frasi melodiche si rinnovano ad ogni verso. Ad esempio: ritmi ternari e brevi frasi simmetriche a mo’ di danza illustrano immagini liete; un andamento sillabico, denso di note ribattute e povero di melismi, serve a declamare affermazioni pregnanti. Ai singoli intervalli melodici, sulla scorta di teorici come Nicolò Vicentino (1555) e Gioseffo Zarlino (1558), si attribuiscono qualità espressive distinte: “incitati” (vivaci), “molli” (tristi o patetici), indifferenti. Ci si deve preoccupare, nel quadro della teoria modale, della congruenza armonica fra il “soggetto principale” e le entrate delle altre voci. 

Un tenue filo d’Arianna sembra offerto da Zarlino, quando consiglia di ridurre le artificiose entrate “discordanti” nei brani destinati ad un minor numero di voci, e ciò al fine di non dare “incommodità alli cantanti”. Pare un richiamo all’altro caposaldo del madrigale: il suo uso sociale come canto a cappella, tipicamente da tre a cinque voci tutte di pari dignità melodica, con un cantore per parte. Forma democratica per eccellenza, dato che non contempla separazioni fra interpreti e uditorio, e nemmeno, in una certa misura, tra professionisti e dilettanti. Il Cortegiano di Baldessar Castiglione (1528) prescrive infatti al perfetto gentiluomo una ricca panoplia di virtù civili e militari fra cui “lo intendere ed esser sicuro a libro” cioè nella lettura delle note a prima vista. 

Fra le quinte della vita ufficiale di corte e di chiesa, teatralmente scandita da fastosi rituali sonori, il canto dei madrigali è un esercizio fra amici che può svolgersi informalmente nel dopocena. Così fan tutti: da papa Leone X coi suoi ospiti (ricompensati per il favore con “cento e più ducati”, come narra nel 1517 un ambasciatore veneto) fino ai nobili di provincia e ai buoni borghesi. In un anonimo salotto elisabettiano l’erudito Polymathes deve confessare alla padrona di casa di non saper leggere dal libro-parte che “secondo l’uso” gli pongono davanti sulla tavola sparecchiata. Al che la compagnia comincia a sussurrare: “Ma questo come è stato educato?”, e l’indomani lui corre a purgarsi dall’onta iscrivendosi alla scuola di musica del maestro Gnorimus – cioè Thomas Morley, sommo madrigalista che nel 1597 inaugura con questa storiella il proprio dialogo didattico A Plaine and Easie Introduction to Practicall Musicke.

Nel fiume secolare del madrigale non potevano mancare svolte e correnti: dal fluido dettato di Verdelot e Arcadelt, al marmoreo contrappunto di Willaert e Palestrina, ai turbamenti cromatici di Orlando di Lasso e Cipriano de Rore, si approda sul finire del ‘500 alla “musica reservata” delle corti padane, ormai segnata da un alto tasso di professionismo che incoraggia nei compositori l’uso espressivo delle più ardite dissonanze e i primi esperimenti col basso continuo. Attorno al “Concerto delle dame di Ferrara”, harem musicale del duca Alfonso II d’Este, orbitano Luzzasco Luzzaschi, allievo di Rore e maestro di Frescobaldi, Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa. L’estrema fioritura delle “musiche da camera non concertate”, come le chiama intorno al 1650 Severo Bonini, un monaco fiorentino allievo di Caccini, portava già in sé i germi della dissoluzione sotto l’urgere della monodia accompagnata. Così Bonini fotografa la transizione fra prima e seconda pratica del madrigale: Luca Marenzio, “il più universale perché ha composto negli ambidui Stili”; Monteverdi, “singulare per l’affettuoso stile ne suoi Madrigali a cinque voci […] con le sue peregrine inventioni ha destato li spiriti sonnacchiosi”; il “Signor Principe di Venosa” a Firenze è ancora considerato un caposcuola, ma altrove è accusato “di troppo ardire con farsi Autore di nuove Regole fatte a suo capriccio”. 

Un trio di guastatori eccellenti. Ma il Marenzio, misconosciuto in vita, muore nel 1599, e nel 1605, con gli ultimi sei brani concertati e “teatralizzati” del suo Libro V, Monteverdi fa esplodere dall’interno il venerando edificio del madrigale polifonico; poi nel 1607 volta pagina con l’Orfeo. Coi suoi ultimi due libri del 1611, il V e il VI, Gesualdo resta asserragliato fra le macerie. Ne esaspera l’instabilità armonica con torsioni che preludono al Tristan-akkord wagneriano, ne frammenta il contrappunto, le rende inabitabili. 

Dopo secoli di tifoserie, dal crucifige di Burney agli osanna di Křenek e Stravinskij, nella seconda metà del ‘900 la musica del Signor Principe resta in auge liberandosi dai miti. Edward J. Dent nella New Oxford History of Music: “La vita privata di Gesualdo non ci riguarda […] La sua tecnica si basa sui procedimenti di Marenzio e di Luzzaschi. Non si può dire che sia un inventore o un pioniere […] L’originalità di Gesualdo sta nei ritmi, non nell’armonia”. Teresa Rampazzi (1914-2001), pioniera italiana della musica elettronica: “Gesualdo […] è molto interessante per noi perché il suo spazio sonoro è talmente denso che ne può derivare una sensazione di soffocamento, cioè una mancanza di spazio. Non ci sono buchi nei madrigali di Gesualdo e la conseguenza è sempre la stessa: dove non c’è spazio non c’è tempo; la dimensione religiosa delle sue ultime opere ne è la riprova”.

Femminicidio come una delle Belle Arti

Quelle “favole in musica” che Gesualdo non volle sperimentare, i posteri le hanno scritte su di lui. Troppo ghiotta la leggenda nera del Principe Assassino che si lacera la coscienza nei rimorsi e nelle dissonanze! Il trend continua a dispetto dell’evidenza storica: lungi dall’essere un caso isolato, il delitto d’onore fioriva proprio nei circoli di corte più esposti in verso e in musica all’educazione sentimentale di Petrarca e Giambattista Guarini. Anna Guarini, figlia del poeta, aveva ereditato dalla madre Taddea Bendidio il talento musicale e un posto nel “Concerto delle dame di Ferrara”. Morì di pugnale nel 1598 per mano del marito, conte Ercole Trotti, aiutato dallo Sparafucile di turno. 1601: uxoricidio trasversale del conte Alfonso Fontanelli, compositore e diplomatico estense intimo di Gesualdo, nella persona del drudo Flaminio Signoretti. L’infedele contessa ne morì di dolore: conto saldato.

Opera e Musiktheater 

Alfred Schnittke, Gesualdo, libretto di Richard Bletschacher. Per 13 personaggi, coro e orchestra, in un prologo, 7 scene e un epilogo. Prima: Staatsoper di Vienna, 1995, diretta da Rostropovich; Luca Francesconi, Gesualdo considered as a murderer, su libretto di Vittorio Sermonti per soprano, tenore, baritono e quartetto vocale. Prima: Holland Festival 2004. Sovrappone i verbali del processo a un tappeto elettronico che rielabora alcune pagine di Gesualdo.

Altri titoli (elenco selettivo): Francesco d’Avalos, Maria di Venosa, 1992, prima scenica: Festival di Martina Franca 2013; Franz Hummel Gesualdo, 1998; Scott Glasgow, The Prince of Venosa, 1998; Salvatore Sciarrino, Luci mie traditrici, 1999 e La terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (per i pupi siciliani di Mimmo Cuticchio), 1999; Bo Holten, Gesualdo, 2003; Marc-André Dalbavie, Gesualdo, 2010. 

Musica “astratta” 

Igor Stravinskij: Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum per piccolo gruppo di fiati, archi e pianoforte. Prima: Venezia, Biennale Musica 1960. “Ricomposizione” di tre madrigali a cinque voci: Asciugate i begli occhi, Ma tu cagion di quella (V Libro, nn. 14, 15) e Beltà poi che t’assenti (VI Libro, n. 2). L’impianto degli originali è emulato dal contrasto dei timbri strumentali; resta costante il tactus di base a mo’ di pavana, solo accelerando un poco dal primo al secondo movimento. 

Altri (elenco selettivo): Peter Eötvös, Drei Madrigalkomödien per 12 voci a cappella, 1970-1990, Jan van Vlijmen, Omaggio a Gesualdo per violino e sei gruppi strumentali, 1971; Peter Maxwell Davies, Tenebrae Super Gesualdo per mezzosoprano e piccolo gruppo misto, 1972; Brett Dean, Carlo per archi, nastro magnetico e campionatore, 1997; Salvatore Sciarrino, Le voci sottovetro per mezzosoprano e piccolo gruppo, 1998; Scott Glasgow, Tenebre per archi, 1997. 

Carlo Vitali

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