“Re di donne” allo Sperimentale di Spoleto: Palmer e Pizzech raccontano un femminicidio
La Seconda Guerra Mondiale era appena terminata quando nel 1947 Adriano Belli, avvocato e musicologo fondò il Teatro Lirico Sperimentale a Spoleto: lo scopo era di avviare alla professione dell’arte lirica quei giovani dotati di talento che, compiuti gli studi di canto, non avevano ancora debuttato. I vincitori del Concorso di canto dello “Sperimentale” erano accolti a Spoleto e seguiti in un corso di due anni, dove erano preparati ad interpretare e cantare le opere ma anche al gesto all’espressione, con la guida dei registi e dei direttori che avrebbero poi messo in scena le opere stesse nella Stagione Lirica.
Da 72 anni e ancora così. In marzo si svolge a Spoleto il Concorso per giovani cantanti lirici della Comunità Europea, una Giuria internazionale sceglie tra i candidati quelli che risultano vincitori con una media di 8/10. La fase successiva prevede un corso di preparazione al debutto: sono cinque mesi di lavoro durante i quali vengono impartiti vari insegnamenti: dizione, mimo, recitazione oltre al perfezionamento vocale. Nell’ultimo periodo di preparazione gli allievi studiano i ruoli delle opere scelte dal Direttore Artistico per il loro debutto. La Stagione Lirica finalmente può aver inizio.
Negli anni il Concorso ha rivelato – impossibile citarli tutti – tra tanti le voci di Cesare Valletti, Franco Corelli, Leo Nucci, Mariella Devia ed ancora negli anni più recenti Roberto De Candia, Sonia Ganassi e Daniela Barcellona. Hanno collaborato molti artisti alla preparazione delle stagioni: da Nino Rota a Renato Bruson, Raina Kabaivanska a Edda Moser. Ronconi, Gregoretti. Sequi, Proietti fra gli altri hanno realizzato le regie degli spettacoli.
Dalla stagione 1994, venticinque anni ormai, come titolo di inaugurazione viene commissionata un’opera ad un compositore contemporaneo. Progetto Opera Nova, appunto.
Dopo un’anteprima agli inizi di agosto con Il Retablo de mese Pedro di Manuel De Falla il 6 settembre la 73° Stagione ha avuto inizio con Re di Donne: una storia di femminicidio opera in un atto di John Palmer su libretto della scrittrice e giornalista Cristina Batocletti e dello stesso Palmer. La storia trae spunto da un terribile delitto, una vicenda di cronaca che ha profondamente turbato l’opinione pubblica: l’assassinio di una ragazzina Sara uccisa dalla cugina e dalla zia ad Avetrana, in provincia di Taranto.
È un’opera da camera per tre voci femminili, due soprani e un mezzosoprano una maschile un tenore; l’orchestra è un organico ridotto, qui diretta dal maestro Vittorio Parisi: un violino, un violoncello, un contrabasso, un flauto, un clarinetto, il pianoforte, un trombone e le percussioni e l’elettronica. La musica è scritta con grande sapienza ed un utilizzo degli strumenti davvero coinvolgente. Il pubblico molto commosso ha tributato un grande successo.
La vicenda è ambientata a Pisa, ma la scena assomiglia ad uno studio televisivo dove tutto si svolge sotto lo sguardo di tutti. I protagonisti sono vestiti e truccati come i personaggi che affollano le trasmissioni che mettono in scena discussioni, litigi, corteggiamenti…tutti ossessionati dagli smartphone con i quali fanno selfie, inviano messaggi, chiacchierano. L’unica che si discosta da questo circo mediatico è la povera vittima – qui ha nome Ivana.
Ottimi i cantanti: Lada Boćková, Miryam Marcone, Daniela Nineva e Marco Rencinai,
Palmer è un compositore britannico, ha studiato pianoforte composizione e direzione d’orchestra a Londra, poi a Lucerna; ha lavorato in tutta Europa e nei primi anni ’80 è stato anche cantautore.
Lo abbiamo incontrato dopo la prima di Re di Donne e gli abbiamo fatto alcune domande
- Perché ha scelto come spunto per il libretto della sua nuova opera la tragica vicenda dell’omicidio di una povera ragazza avvenuto in un piccolo paese del Sud Italia?
Quando un anno e mezzo fa proposi a Michelangelo Zurletti, direttore artistico, una selezione di tre opere che volevo comporre Lui mi disse che le opere adatte allo Sperimentale devono avere una relazione alla cronaca, anche internazionale, e soprattutto che siano state seguite in Italia. Mi misi a cercare i temi più scottanti nelle cronache in lingua inglese, tedesca e italiana, con particolare e dovuta attenzione alla cronaca italiana. Finché mi imbattei nel terribile delitto di Avetrana.
Per scrivere il libretto era molto importante per me confrontarmi con un’altra persona, che fosse una donna in modo da potere affrontare il testo da due prospettive psicologiche diverse: quella femminile e quella maschile. Fra le tante ricerche fatte sull’Internet ero stato colpito da un’intervista su quel tema della scrittrice e giornalista Cristina Battocletti; la contattai subito proponendole di affrontare insieme un argomento legato alla condizione femminile, tema che mi è sempre stato cuore.
La storia di Avetrana però è stato uno spunto come un altro, utile ad affrontare il tema del femminicidio, Questo è una piaga comune a tutti i paesi del mondo e pertanto vi abbiamo ragionato in modo universale, senza riferirci al Nord o al Sud dell’Italia, tanto che abbiamo deciso di ambientarlo a Pisa, città conosciuta in tutto il mondo.
La violenza in generale, e quella sulle donne in particolare, mi ha sempre particolarmente sconvolto e sono stato particolarmente sensibile sin dalla giovinezza a questo problema.
Nelle varie fonti di informazione ho anche trovato le statistiche condotte dall’ufficio di crimine internazionale dell’ONU in cui viene confermato che 137 donne al giorno sono vittime di femminicidio! Inoltre il 65% di questi crimini vengono commessi all’interno di una famiglia o di una coppia. Una statistica del Messaggero riportava che in Italia ogni 72 ore una donna è vittima di femminicidio. Anche in questo caso la maggioranza di questi crimini avviene all’interno di una coppia o di una famiglia.
Questi dati mi fecero subito ricordare all’orrendo caso di Fred West in Gran Bretagna: un uomo che con sua moglie Rosemary per oltre 20 anni tenne prigioniere e abusò sessualmente, per poi uccidere, 23 giovani donne per poi smembrarle e nascondere i resti dei corpi nel giardino di casa. La moglie ne era stata complice in tutti questi anni. Qualche anno dopo in Belgio venne fuori un caso simile, più recenti altri simili casi scoperti in Austria e in Germania.
Lo spettatore attento noterà che, pur nel loro squallore e nella bassezza di un linguaggio mediocre che riflette l’entourage dei quattro protagonisti, nei dialoghi dell’opera si può notare una sottile diversità di approccio psicologico che evidenzia un’ottica a volte più femminile, altre volte più maschile a seconda della situazione. Lavorare in questo modo sul libretto ci ha dunque permesso di riunire due percezioni di “gender” opposte ma complementari sulla condizione psicologica di ogni specifico personaggio.
La nostra storia mette in evidenza la morbosità di una situazione allucinante dove all’interno di una famiglia è una donna ad uccidere un’altra donna, mentre l’uomo che ha provocato tutto questo riesce con astuzia a manipolare i sentimenti di due donne allo stesso tempo, inducendole a mettersi una contro l’altra, per poi rimanere indenne e fuori da ogni colpa morale e civile. Dunque si tratta di un doppio scontro: uomo-contro-donna, ma allo stesso tempo donna-contro-donna. Il femminicidio diventa così qualcosa ancora di più terribile dove la mediocrità delle donne stesse ne darà protagonista e diventerà un’arma fatale nelle mani del maschio che risulterà il vero ‘vincitore’ della storia.
- Come ha rappresentato e raccontato in musica queste tre differenti figure di donne? Cosa l’ha ispirata particolarmente di ciascuna di loro?
Comincio nel darle un’idea generale del mio approccio alla composizione: 400 anni fa Claudio Monteverdi nel suo Quinto Libro di Madrigali fece una distinzione esatta tra due modi di scrittura vocale del suo tempo: la Prima Praticca, dove il testo era subordinato alla musica, e la Seconda Prattica, che era una nuova situazione inversa proposta da Monteverdi stesso, nella quale il testo determinava le frasi musicali. All’inizio del 1600 questo approccio fu rivoluzionario e la famosa frase di Monteverdi “Prima la parola” pose la base per la metodologia della composizione musicale dell’opera classica.
In “Re di Donne” il mio approccio include tutte e due le “prattiche”. Trattandosi di un’opera da camera (un ensemble di 9 strumenti, compresa l’elettronica), ho deciso di usare una scrittura orchestrale che sia anch’essa da camera, dove la parola e la musica hanno lo stesso valore e lo stesso peso nella formazione di frasi musicali e nella sintassi (musicali) delle frasi stesse.
Con questa premessa, ciascun personaggio della storia ha un Alter-ego strumentale. Questi Alter-ego hanno una funzione simile a quello che nella psicoterapia viene chiamato processo di spostamento: Rocco (baritono) è rispecchiato dal trombone; Frida (mezzosoprano) è corrisposta dal violoncello, Martina (soprano) dal clarinetto e Ivana (soprano) dal flauto. Inversamente, le frasi del trombone sono rispecchiate da Rocco, quelle del violoncello da Martina e così via. Quindi quando il flauto suona, è simbolicamente la voce di Ivana che diventa strumentale, le frasi del clarinetto riflettono il subconscio di Martina, quelle del violoncello di Frida, e quelle del trombone non sono altro che la voce di Rocco. Tutto ciò accade anche quando i cantanti non cantano, quindi rimanendo intrinseco durante tutto lo svolgimento dell’opera. Questo intreccio strumentale-vocale mi ha permesso di stabilire solide relazioni sintattiche tra le parti vocali e quelle strumentali.
Le tre differenti figure di donne non hanno avuto un trattamento speciale riguardo alla figura dell’unico uomo, perché tutti e quattro i personaggi sono legati da un karma di gruppo. Mi spiego meglio: tutti i personaggi nella storia sono interdipendenti e collegati da un tragico destino che li unisce. Dal punto di vista drammaturgico le tre donne hanno bisogno dell’uomo per poter svolgere le loro azioni, mentre l’uomo ha bisogno di loro per potere essere ciò che è. Una relazione più distante esiste tra Rocco e Frida, due personaggi che non si parlano mai nell’opera, ma che sono anch’essi collegati in una realtà psichica più sotterranea rispetto agli altri, rimanendo in ogni caso all’interno dello stesso karma di gruppo.
Ogni personaggio ha un suo proprio materiale musicale da cui si sviluppano le frasi vocali che sono basate sugli stessi intervalli. Queste linee melodiche sono essenzialmente indipendenti, ma in certi momenti della tragedia diventano dipendenti e si fondono una nell’altra come a voler sottolineare il dramma comune di tutti i personaggi in un processo di “spostamento”, come avevo accennato prima. Da questi quattro motivi principali viene fuori un “super-motivo” di gruppo che è spesso evidenziato in maniera molto esplicita dal pianoforte in alcuni momenti cruciali dell’opera. Questo accordo che ho chiamato “karmico” o Notae Dramatis, unisce tutti e quattro i protagonisti e diverrà importantissimo nella Scena Quarta, proprio al culmine della tragedia. Per evidenziare questo significato relative al karma di gruppo il suono del pianoforte viene trasformato con modifiche spettrali e proiettato dall’elettronica in uno spazio più ampio di quello acustico.
Al contrario di Rocco, le tre donne usano frasi musicali molto simili che devono riflettere la loro similitudine umana. Gli intervalli delle frasi sono costruiti sulla musicalità del modo di parlare di giovani italiani. Per me ogni lingua è una musica con caratteristiche ben precise. Ho ascoltato attentamente questo tipo di musicalità parlata nell’italiano di ogni giorno e ho ‘tradotto’ gli accenti, i ritmi e le ondulazioni melodiche delle frasi in corrispondenti intervalli musicali da cui nascono quasi tutte le frasi cantate dalle tre donne.
Nel caso di Rocco ho usato un approccio diverso. Il suo materiale musicale si basa sul modo lidio perché volevo che il semitono si-do della scala lidia (basata sul fa) evidenziasse un certo tipo di pathos tipicamente latino proprio come nella musica popolare napoletana che ho preso come modello per distinguere il machismo di Rocco.
Nelle prime tre scene le frasi si svolgono velocemente, quasi in maniera asfissiante. Questo elemento musicale deriva non solo dal modo veloce di parlare dei giovani d’oggi, ma vuole anche sottolineare un continuo senso di ansia che è tipico della vita contemporanea. Il continuo succedersi di frasi vocali viene sottolineato da una polifonia musicale basata sui principi di equivalenza vocale-strumentale che accennavo prima. Devo anche sottolineare che questo tipo di scrittura vocale crea frasi che cominciano spesso in levare invece che in battere, e spiega la grande quantità di sincopi che interrompono la regolarità del flusso di una frase cantata in modo tradizionale. Tutto questo rende lo svolgimento delle parti vocali ancora più asimmetrico e fluido, a tratti quasi inarrestabile.
Se lo stress della vita quotidiana riflette l’elemento principale delle strutture vocali di Frida, Martina e Ivana viva, Ivana morta ha un suo proprio materiale musicale basato su una scala modale che ho creato appositamente per questo personaggio. È necessario, in questo contesto, distinguere la figura di Ivana che è divisa in due personaggi separati: Ivana viva e quella morta. La distinzione di questi due sub-personaggi è importante per capire le due dimensioni temporali su cui si svolge l’opera.
La riflessione di Ivana morta non deve corrispondere alle azioni di Ivana viva. Nel libretto questo elemento psicologico è di cruciale importanza e le due dimensioni temporali, il futuro (Ivana morta) e il presente (Ivana viva) rimangono chiaramente distinte. Avrei preferito che questa distinzione fosse stata evidenziata in maniera più profonda dalla regia.
Un tema comune a tutti i personaggi è anche quello della vittima. Una delle questioni che mi sono posto è se in realtà Ivana sia vittima di Rocco o di sé stessa. È proprio a questa la domanda che Ivana morta cerca di rispondere all’inizio dell’opera. Il dilemma della vittima – forse vittima di sé stessa – viene messo in discussione dalle domande di Ivana morta in una riflessione confusamente articolata tra rammarico (“se non lo avessi pensato”), turbamento (“lui mi guardava come una donna”) e illusione (“ma era bella quell’emozione, quell’idea d’amore”).
Al contrario di Ivana, Martina si muove nella sua vanità che si trasformerà gradualmente in invidia, rabbia e voglia di vendetta. Anche Martina è una vittima della sua superficialità. La stessa Frida, la madre artefice del delitto, rivelerà nella Scena Quinta che anche lei ha sofferto una mancanza di amore che l’ha relegata a condurre una vita squallida: “io ti volevo aiutare ad avere un uomo migliore di quello che ho avuto io”.
- Lei ha scritto per Frida, quella madre sciagurata, una vera e propria “aria di furore”. E’così?
Sicuramente lei si riferisce alla cadenza di Frida nella Scena Terza. Più che un’aria si tratta di una vera e propria cadenza furiosa. Qui la voce di Frida interagisce ai suoni sporchi del suo alter-ego, il violoncello, deve fondersi con il clarinetto (l’alter-ego di Martina) e viene trasformata dall’elettronica. Questo momento è l’apice dell’ira di Frida e l’espressione vocale della sua vendetta che sta per prendere forma sulla giovane Ivana.
Da non dimenticare una simile cadenza di Martina nella Scena Seconda, dove la gelosia della figlia nel constatare l’interesse di Rocco per Ivana diventa anch’essa un’esplosione isterica di incontrollata furia anche in questo caso musicalmente trasfigurata dall’elettronica.
- Il titolo si riferisce all’unica figura maschile dell’opera. Quanto è importante il ruolo di Rocco?
Il ruolo di Rocco, simbolo della superficialità par excellence, deve essere importante perché è lui il motore di tutta la tragedia. È lui quello che manovra le sue mosse con costante egoismo e nella sua più sfacciata vanità. Il suo vuoto interiore lo spinge a una continua bassezza di comportamento che non si fermerà neanche di fronte alla morte di Ivana. Ma lui è anche un simbolo caricaturale di ciò che rappresenta, e questo viene evidenziato non solo dalla natura delle sue frasi vocali (l’uso del modo lidio di cui parlavo prima), ma anche dalla leggerezza delle sue arie “Io sono bello” e “Le donne” fino alla fine della storia dove dalla platea continuerà ad evidenziare il suo successo sulle donne, nonostante la morte di Ivana e l’arresto di Frida e Martina cantando “mi chiamano in cento… eh sì, ora sono proprio un re di donne”. Rocco rappresenta il vuoto etico e morale e la massima superficialità del mondo di oggi.
- Possiamo dire che in quest’opera viene messo in evidenza il difficile ruolo della donna nella società degli anni 2000?
Sicuramente. Ma è un ruolo che è stato difficile anche prima, dal momento in cui l’uomo ha cominciato ad abusare la donna perché più debole fisicamente, costringendola a un ruolo sociale ben preciso che le precludeva di evolversi alla pari dell’uomo. Si tratta di una fondamentale mancanza di rispetto che rimane alla base di tutti i rapporti umani. Certo, negli anni 2000 queste forme di abusi giornalieri sono aumentati e hanno preso forme più perverse, fondendosi con le voghe tipiche delle subculture che nascono dalla globalizzazione: un’eccessiva mediocrità di costumi, un allarmante disorientamento dei giovani, la mancanza di un’etica di rispetto che sembra dilagare ogni giorno di più in una società che non permette più di pensare con la propria testa. Tutto ciò permeato dal trionfo del materialismo, simbolo di una società spezzata in mille forme di egotismo dalle manifestazioni più crudeli. In questo senso, “Re di Donne” è una “Opera Negativa” proprio perché mette in evidenza le brutture della vita d’oggi.
- Naturalmente è evidente il grave pericolo dei social media usati senza alcun criterio…
Certamente. Questo si sta dimostrando come uno dei pericoli più evidenti della società odierna. Ma, come in altre simili situazioni, non è la tecnologia che fa l’uomo, ma il contrario. Il problema non è mai l’evoluzione della scienza, ma il modo in cui essa viene usata. Il problema rimane fondamentalmente negli esseri umani.
La regia di Re di Donne è di Alessio Pizzech, un artista che lavora con le Fondazioni liriche, con i Teatri di tradizione e per i Festival più interessanti e innovativi. Sentiamo cosa ci dice del suo lavoro.
- Non ha avuto molto tempo per ideare e realizzare lo spettacolo di Re di donne, l’opera ha vinto la selezione in primavera e già a settembre è in scena al Caio Melisso…
Eh sì ho ricevuto la commissione in aprile, non c’è stato molto tempo anche perché una cosa è leggere la partitura di un’opera altra cosa è cogliere la resa del clima emotivo della musica infine eseguita. Il colloquio con il maestro John Palmer, in giugno a Stoccarda, è stato molto utile e comunque la bellezza e la difficoltà di queste operazioni sta anche nella sorpresa che la musica contemporanea riserva.
- Il libretto l’ha guidata, è stato d’aiuto?
– Il libretto di Cristina Batocletti e dello stesso John Palmer era già scritto ma io ho dato qualche suggerimento di drammaturgia su alcuni punti che sarebbe stato difficile rappresentare e raccontare dal punto di vista registico.
- Lei ha esperienza di opere di repertorio ma ha messo in scena anche titoli desueti, penso a Le Pauvre matelot di Darius Milhaud così come altre opere contemporanee. Cosa significa per un regista confrontarsi con l’autore dell’opera che si mette in scena?
È una doppia responsabilità, perché si ha un feed-back immediato rispetto al lavoro e poi c’è sempre quel grado di tradimento: come diceva Pirandello la regia è sempre un tradimento dell’immagine di un’opera che l’autore ha immaginato mentre scriveva. Il lavoro di regia è sì individuale ma è anche collettivo e deve tener conto di molti aspetti, è necessario anche far capire al compositore che il passaggio tra l’idea scritta nel libretto e sulla partitura è sempre una mediazione con la messa in scena stessa. È molto impegnativo.
- Cosa ha ideato per la messa in scena di questo tema così forte, d’impatto così immediato, una vicenda che ha colpito l’opinione pubblica con una forza e una violenza terribile? Una ragazzina assassinata in famiglia, con una crudeltà inusitata…
L’opera è ispirata alla vicenda di Avetrana, ma poi ha un suo sviluppo…è giusto così perché facciamo spettacolo e non cronaca. Quella storia è una metafora dello squallore e della volgarità in cui spesso ci ritroviamo a vivere ed è per questo ho cercato di riprodurre in scena, in un’ora e dieci, un affresco dei peggiori difetti della società anche suggeriti da una certa televisione e dei modelli di comportamento che spesso vengono seguiti senza alcuna visione critica. L’idea portante era di fare dei personaggi degli emblemi di un’umanità smarrita.
- Qui a Spoleto ha lavorato con una compagnia di debuttanti, tutti vincitori dell’ultimo concorso o degli anni scorsi. Come si fa a coinvolgere dei giovani inesperti e che differenza c’è a dirigere dei giovani invece che dei cantanti con anni di esperienza alle spalle?
Oh, è bello bello davvero! Questi quattro ragazzi hanno fatto un viaggio dentro sé stessi, si sono lasciati andare hanno sofferto ed anche pianto perché la storia li messi in gioco come persone. Ora si divertono ma per loro è stato come riscoprirsi nel profondo. Il piacere di lavorare con i giovani è proprio questo loro, se ben guidati, hanno voglia di esporsi. Sono coraggiosi. I cantanti di grande esperienza hanno più sicurezze e una professionalità che li supporta, ma per loro andare su terreni sconosciuti spesso diventa più difficile.
Annarita Caroli
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