Re Salomone e il fenomeno dell’invidia, Psicologia e Bibbia in dialogo

Nel concepire l’invidia, Aristotele notava che è “un dolore causato da una buona fortuna”, altrui beninteso: essa appare, cioè, in persone simili a noi per cui “sentiranno invidia quelli che sono o sembrano essere i nostri pari, intendendo per pari coloro che sono simili a noi per stirpe, parentela, età, disposizione, reputazione e beni.”. Il primo invidioso nella storia dell’uomo fu quindi Caino…

L’invidia è al centro del volume di Salvatore Capodieci, psichiatra e psicoterapeuta, che nel 2014 ha dato alle stampe nella collana Vivae voces di Lateran University Press il bel saggio su Re Salomone e il fenomeno dell’invidia, Psicologia e Bibbia in dialogo (pagg.161, euro 16).

L’intento dei saggi contenuti nella collana è di raccogliere le voci più indicative e rilevanti di quelle discipline considerate vitali nel panorama culturale, teologico ed ecclesiale contemporaneo, nel tentativo di raggiungere un’efficace visione d’insieme su soggetti che segnano il cambiamento culturale dell’uomo.

Nella fattispecie l’atto d’invidiare raccontato nella Bibbia con il celebre episodio di Caino e Abele, ha creato il vero significato dell’esistenza: “Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo” (Sap, 2, 24).

Abele è il prediletto da Dio, Caino, suo fratello maggiore, ne è invidioso e il suo sentimento è causa del primo omicidio della storia dell’uomo. Un avvenimento quello dell’omicidio tra fratelli, che è sempre attuale e ha fatto versare fiumi d’inchiostro.

In arte ha creato innumerevoli varianti, pensiamo all’oratorio a sei voci di Alessandro Scarlatti su testo di Antonio Ottoboni Il Primo Omicidio, ovvero Caino, un capolavoro assoluto del barocco italiano composto nel 1707 e rappresentato molto probabilmente a Venezia del fecondo musicista, autore di numerose decine di opere di teatro musicale.

Cos’è dunque l’invidia? Si chiede Capodieci. Molto semplice, l’invidia è rammarico e risentimento che si prova per la felicità, la prosperità e il benessere altrui, sia che l’interessato si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia che già possedendoli, ne pretenda l’esclusivo godimento.

In altre parole l’invidia è il desiderio frustrato di ciò che non si è potuto raggiungere per difficoltà o ostacoli non facilmente superabili, ma che altri, nello stesso ambiente o in condizioni apparentemente analoghe, ha vinto o vince con manifesto successo. Per questo motivo Caino uccide Abele.

L’invidia genera non solo dolore, ma anche tristezza per i beni altrui che l’invidioso vorrebbe per sé, poiché giudica che l’altro li possegga immeritatamente e debba essere punito per questo con l’espropriazione.

La sindrome di Tristezza dell’invidioso è indirizzata al bene altrui in quanto diminuisce la nostra gloria ed eccellenza procurandoci l’odio, la maldicenza, la diffamazione, la soddisfazione per le disgrazie del prossimo e la tristezza per la sua prosperità.

Il triste invidioso che nell’iconografia è raffigurato a spiare da lontano, con il viso accigliato, quel fortunato felice possessore che vorrebbe far soffrire di una sofferenza che invece, come in un contrappasso, colpisce lui.

Il suo malocchio si ritorce contro di lui come nella visione dantesca che raffigura gli invidiosi con gli occhi cuciti. Uno degli autori più antichi, Erodoto (484 a.C.–425 a.C.) estende questo sentimento malevolo persino agli dei arcaici, garanti di quell’ordine universale che se compromesso causa l’intervento della divinità, in base a quel principio che l’autore definisce come “invidia degli dei”.

In molte tragedie greche l’invidia degli dei costituisce lo sviluppo narrativo che porta come conseguenza al commettere un atto di hýbris e, di conseguenza, essere uno hýbristes ossia un colpevole di tracotanza che vìola leggi divine immutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi o la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvagie.

Al termine hýbris viene spesso associato quello di némesis, che è la sua conseguenza: significa, infatti “vendetta degli dei”, “ira”, “sdegno”, e si riferisce alla punizione giustamente inflitta dagli dei a chi si era macchiato personalmente di hýbris, o alla sua discendenza o al popolo di cui fa parte.

Tra i filosofi greci Epicuro mette in rilievo il danno morale e l’inutilità di colui che invidia.

L’invidia trova ampia riflessione nella cultura romana con Marco Tullio Cicerone che la considera un sentimento devastante, impossibile da arrestare una volta manifestato così che «quando l’invidia infuria in tutta la sua violenza contro di essa risulta impotente il singolo e persino un’intera istituzione» come il senato romano.

Lo stesso vizio capitale attraversa l’Antico Testamento, che lo definisce “carie delle ossa” per giungere fino al Nuovo dove Cristo viene dato a Pilato che “sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia.”

Nel Meridione d’Italia si usa dire, infatti, “stare nel Credo come Ponzio Pilato” che è una variante alta, di “c’entra come i cavoli a merenda.”.

L’invidia è dunque il “peccato diabolico per eccellenza” per Sant’Agostino, poiché, come nota San Basilio “Caino vittima e discepolo del diavolo ha fatto sì che la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo.”.

L’invidia presente da sempre nella storia dell’umanità, ma anche in quella di ogni singolo uomo: “Ho visto e osservato un bambino invidioso. Ancora non parlava e già guardava livido e con volto amareggiato verso un altro bambino, suo fratello di latte.”.

Francesco Bacone condivide l’idea che l’invidia si serve dell’occhio come veicolo di maligni sortilegi, e per primo tratta dell’invidia “pubblica” che capovolge il normale percorso di chi privo di qualcosa, sentendosi in basso, invidia chi sta in alto.

Nell'”invidia del re”, quella provata da Re Salomone di Gerusalemme, il procedere è al contrario: dall’alto verso il basso; paradossalmente, cioè, chi ha una posizione di grande vantaggio invidia e teme chi dal basso sembra voler colmare la distanza da lui per occupare il suo posto. Allora i politici saggi “faranno bene a sacrificare qualcosa sull’altare dell’invidia permettendo essi stessi, talvolta del tutto intenzionalmente, che alcune cose vadano loro male, o soccombendo in cose cui non tengono troppo.”.

Per Friedrich Nietzsche l’invidia è uno dei frutti della morale degli schiavi ovvero del moralismo cristiano che incapace di assurgere alle vette del superuomo si piega ed esalta i valori dell’umiltà e della rinuncia predicati dall’altruismo e dall’egualitarismo cristiano da cui si genera l’invidia e l’odio. “Dove realmente l’uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata, nasce quell’inclinazione, considerata in complesso immorale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia.”.

Nelle sue Visioni di viaggio Heinrich Heine racconta un caso clamoroso d’invidia dall’alto, quella provata nei confronti dell’insigne poeta dal conte e poeta von Platen. La tenzone fra i due produrrà due cadaveri, quello del conte sbeffeggiato con teutonica ironia da Heine per il suo amore per le arti e gli Adoni, e quella dello stesso Heine cui sarà negato dall’Università di Giurisprudenza di Göttingen, il titolo per accedere alla carriera universitaria ad Amburgo. Il primo sarà confinato alla fama in un ristretto novero di estimatori, il secondo sarà costretto all’esilio parigino e alla tomba dei materassi.   L’invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro sopra la misura comune, lo vuole riabbassare fino a essa. Esso pretende che quell’uguaglianza che l’uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso.

Con l’amicizia dionisiaca, caratterizzata dal sano naturale egoismo non c’è più invidia, risentimento, incomprensione. Nessuno invidia e quindi teme l’altro. I falsi amici di Cesare prima lo ammirarono, poi l’invidiarono e alla fine odiarono e uccisero.

Queste riflessioni mi sono state dettate dalla lettura del volume che mi è stato utile per apprezzare lo spettacolo con cui Romeo Castellucci ha rappresentato, qualche stagione fa, Il Primo Omicidio di Scarlatti all’Opéra di Parigi.

Ora una telefonata di Stefania Bonfadelli mi chiede di rivedere un testo del 1933 scritto da mio nonno, La Gatta, un dramma sociale che Rino Alessi scrisse per Marta Abba desiderosa di ripetere situazioni già rappresentate nell’Amica delle mogli di Luigi Pirandello, che è del 1927.

Secondo Ante Teresic Pavicic “uno dei più grandi poeti della letteratura croata contemporanea”, La gatta è uno dei più forti drammi sociali dell’autore. E, come Caino, è una grande invidiosa. Lo sto studiando e in tempi di pandemia tenere il cervello allenato, fa soltanto bene.

Quanto al volume di Capodieci, ne consiglio la lettura agli invidiati che, non conoscendo il fenomeno al centro del libro, faranno bene a conoscerlo per meglio difendersene.

Rino Alessi

Salvatore Capodieci
Re Salomone e il fenomeno dell’invidia, Psicologia e Bibbia in dialogo
Lateran University Press
EAN: 9788846509628

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