Rimini: “Stia tranquillo è un evenienza”
Un prologo e 13 quadri per mettere in scena un film mai realizzato. Tentativo coraggiosissimo, ambizioso, al limite del realizzabile e forse riuscito è stato quello di produrre come nuova opera lirica in forma semiscenica, su musica e libretto di Matteo D’Amico, Il Viaggio di G.Mastorna di Federico Fellini, incubo sogno e delirio del regista fino alla fine dei suoi giorni. Fellini, lamentando una delle sue innumerevoli difficoltà immaginarie o scusanti del momento, scrive in una lettera a Dino De Laurentiis negli ultimi mesi del’65: “In ogni modo posso accennarti che vedo il film ambientato molto realisticamente in situazioni e prospettive che escludono in gran parte le costruzioni in teatro. Gli ambienti principali devono essere: aeroporti, stazioni, metropolitane, porti di mare, città modernissime, e allo stesso tempo molto antiche, Roma, New York; Amsterdam, Berlino, il Vaticano, paesetti laziali, Venezia.”
Dal nulla, De Laurentis crea per lui gli studi cinematografici fuori Roma Dinocittà un complesso da far concorrenza e invidia a Cinecittà.
Dopo 8 e ½, Premio Oscar nel ’63, capolavoro assoluto del cinema italiano e mondiale, ma già dopo la Palma d’oro a Cannes nel ’60 per La Dolce Vita, e soprattutto dopo l’incomprensione iniziale ricevuta dalla critica e dal pubblico per Giulietta degli spiriti del ’65, per Fellini era sicuramente iniziato un nuovo percorso cinematografico che rispecchiava il suo malessere interiore. Proprio durante la conferenza stampa di Giulietta degli Spiriti, Fellini inizia a parlare del suo nuovo progetto: Mastorna.
Il viaggio, in tutti i sensi, inizia infatti proprio nel ’66. Già in Giuletta degli spiriti, che spiazzò tutti, al regista veniva criticato di declamare una liberazione interiore che non si riscontrava nel film o nella protagonista in quanto liberazione non ancora sofferta, elaborata, tormentata e poi manifestata.
Quello che Vincenzo Mollica ha definito” Il film mai realizzato più famoso, citato e trasposto della storia del cinema” arrivò in un preciso momento della vita del regista e in quel momento apriva strade verso tematiche poco comprensibili all’epoca ma che si sarebbero rivelate negli anni successivi di un intuito geniale e materia viva da cui attingere ispirazione per un numero infinto di registi.
Ovviamente è imprescindibile separare le due cose: la storia della produzione del film dalla messinscena in opera al Teatro Galli anche perché il libretto si basa sulla sceneggiatura di Federico Fellini insieme a Dino Buzzati, Bernardino Zapponi, Brunello Rondi nell’edizione a cura di Ermanno Cavazzoni.
Narrare le vicissitudini cinematografiche del Mastorna è un delirio esso stesso, interessantissimo, ma purtroppo appena accennabile in questa sede.
Fellini nel’66 era sempre più inquieto, colmo di malessere, dubbi, insicurezze esistenziali.
Il film inizia ad essere prodotto, procede, si interrompe, Fellini racconta bugie, crea, disfa, dirige e annulla quotidianamente impegni e riprese. Si spezzano i rapporti con Rizzoli, subentra De Laurentiis, si spezzano i rapporti con De Laurentiis si arriva addirittura alle vie legali e al sequestro dei beni del regista. Poi i rapporti si ricuciono, Mastorna forse torna in vita: Mastroianni, Villaggio, Enrico Maria Salerno, Paul Newman? No, Ugo Tognazzi è l’unico a firmare un contratto definitivo. Persino Mina dichiara festosamente di essere stata contattata dal regista per il ruolo della Hostess. Ma Fellini è sempre più ingestibile, il circo di cui si circonda quotidianamente lo rende sempre più instabile e inaffidabile, i veggenti, maghi e incantatori a cui si rivolge appena si sveglia la mattina lo turbano irrimediabilmente, confermando e dando fiducia solo a ciò che dicono i suoi sogni. Fellini aveva studiato a fondo Carl Jung, la psicologia analitica e quindi il sogno come un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio ma espressa in forma simbolica. Appuntava tutto, cercava di interpretare tutto, chiedeva spiegazioni su tutto e purtroppo credeva a tutto. Fellini sapeva benissimo dell’uso di sostanze psichedeliche da parte di Jung, ma Jung stesso riconosceva che forse le sostanze psichedeliche potevano essere in grado di aprire le porte degli stessi sconosciuti reami dell’inconscio che egli aveva coraggiosamente esplorato con le sue tecniche meditative ed immaginative, ma non riconosceva il carattere terapeutico e trasformativo di tali sostanze.
Il Libro dei Sogni è il testamento tangibile del rapporto malato che Fellini aveva con l’onirico.
Può capitare ai grandi geni dell’arte di avere un blocco interiore, un black-out creativo, un ostacolo che non si riesce a superare e allora vengono lasciati ai posteri opere immaginate, elaborate, quasi messe in atto e poi incompiute; è capitato a tantissimi registi entrarti nella storia del cinema, basti pensare a Il Napoleon di Kubrick. Certo il caso di Mastorna e Fellini è un po’ più tragicomico.
Il finale della produzione del film sembra surreale ma è realtà: uno dei tanti consulti con il famoso “mago” torinese Gustavo Rol di cui Fellini si fidava ciecamente, raccontando addirittura ai suoi amici i prodigi paranormali a cui assisteva, mette la parola fine a Mastorna. Dino Buzzati stesso aveva parlato del “mago” in questione in un articolo per il Corriere della Sera nel ’65. Tutti i giornali dell’epoca seguivano le vicende del “superuomo” come lo stesso voleva essere definito. Ovviamente la scienza negli anni successivi, Piero Angela in primis, ha smascherato il suddetto mago e chiuso la questione. Ma purtroppo Rol a Fellini aveva predetto presagi funerei su Mastorna. Fellini si sente male nel ’67 all’inizio delle riprese, sviene in un lussuoso hotel di Roma, viene ricoverato d’urgenza. Diagnosi: pleurite allergica ma tanto per lui è solo un presagio di morte, un segno del destino. La parola fine è arrivata, definitiva. Mastorna non si farà mai più. Fellini firma un contratto per tre nuovi film, ma Mastorna non si deve fare.
Per narrare chi sia Mastorna, partiamo da Guido Anselmi, un affermato regista di mezz’età, in crisi durante la produzione del nuovo film e quindi sotto pressione dalla casa cinematografica, perdipiù il protagonista è anche in crisi coniugale, stregato dalla magnifica e insuperabile Sandra Milo, ma la sua crisi esistenziale imbevuta di onirico e apparentemente priva di via d’uscita si risolve in un girotondo circense quando il set ormai si sta smontando e il regista torna bambino, riacquistando voglia di vivere e ricominciando a creare e girare. Quindi, è lecito, normale, che un regista in crisi possa anzi debba staccare un attimo dalla realtà, fare un viaggio, allontanarsi, ritrovare se stesso e sperare nell’arrivo delle Muse ispiratrici, ma attenzione: questo può diventare un incubo macabro poiché le Muse possono tramutarsi in Parche, come nel caso di Mastorna. L’incantesimo si spezza arriva il tormento, la condanna, l’incubo, l’ossessione e la parola FINE definitiva, raggiunta faticosamente, fatale, oggettiva, indiscutibile, ma forse fonte di serenità interiore finalmente?
Ma Mastorna ha una crisi esistenziale da risolvere? La vera crisi è di Fellini che la butta sulle spalle di Mastorna, il quale è solo un pover’uomo che muore in una catastrofe aerea, è un morto che vaga costretto da un cinico Fellini ad affrontare un aldilà incomprensibile.
I coraggiosi e talentuosi Cinzia Salvioli e Valerio Tura insieme al Regista Valter Malosti hanno messo in scena questo viaggio felliniano dal di qua all’aldilà in un Prologo e 13 quadri, prima produzione assoluta del Teatro Galli in coproduzione con il Teatro Alighieri di Ravenna.
Il viaggio di G. Mastorna, è il viaggio di un uomo che fino all’ultimo si ostina a non voler aprire i propri occhi di fronte alla morte, un cammino imbevuto di disagio interiore sempre in bilico tra il subconscio che si proietta in realtà e la realtà rievocata che si frantuma lentamente, soprattutto la realtà infantile a cui viene addirittura dato fuoco pur di dimenticare la negazione delle proprie aspirazioni e abbandonarsi all’illuminazione celeste e indefinita dell’aldilà, dove sicuramente è più piacevole cullarsi e trovare il proprio cammino.
Chi è G. Mastorna? Un Dante involontario che non teme l’ignoto? Un Orfeo in cerca dell’amata Euridice? No, è un morto.
Per fortuna non in scena, in quanto viene interpretato dal bravissimo baritono Luca Grassi con gran presenza scenica oltreché voce sciolta, scura e scorrevole sia in alto che in basso, dizione e legato perfetti.
Inizialmente il protagonista è solo un violoncellista che sale su un aereo perché deve partecipare alle prove d’orchestra in una città straniera.
Primo coro dantesco, Inferno XXX, 136-139: la punizione dei falsari di persona, di monete, di parole (povero Gianni Schicchi pucciniano finito all’Inferno!).
Chi ha perso se stesso e realizza se stesso nella falsificazione finisce all’Inferno.
Il DC9 su cui viaggia il protagonista “atterra” di fronte al Duomo di Colonia sotto la neve. Per Mastorna è un atterraggio fortuito dopo una tempesta in volo, UN’EVENZIENZA, UN’EVENZIENZA ripete continuamente la Hostess, capitano le evenienze nella vita! Fortunatamente Mastorna è vivo e sopravvissuto ma si ritrova solo in questa città straniera. Sa di essere a Colonia, qualcuno glielo dice? No. Dal libretto non si evince. Perché una città tedesca? Perché proprio Colonia? Certo la casualità non fa parte della genialità di Fellini, perché l’aereo non precipita a Madrid, a Parigi, a Londra, o su una spiaggia di Marbella?
No, in Renania Settentrionale-Vestafalia, a Colonia: dove regna un duomo gotico-neogotico, consacrato nel 1322, meraviglioso, scuro che si staglia verso il cielo con due torri cuspidate nel mezzo di una citta quasi rasa al suolo dai bombardamenti, un duomo con accanto, guarda caso, una stazione ferroviaria, per chi non conoscesse Colonia.
Un duomo simbolo di sacralità medievale, non certo quella di cui ha bisogno Fellini e nemmeno Mastorna, una sacralità che anzi prenderà in giro continuamente in tanti dei suoi film, ma nell’opera quell’orrendo DC9 simbolo di una modernità nauseante “atterra” di fronte alla meraviglia della religiosità in tutta la sua magnificenza che garantisce un’assicurazione di serenità e pace eterna a tutti coloro che per fortuna abbracciano la fede in vita.
Mastorna non sta all’Inferno, non è nell’Ade medievale, è solo, spaesato, con il cappello e la custodia del violoncello in mano, perso in mezzo alla neve. Una slitta lo traina in un casermone cubico, il motel dove alloggerà. Da qui inizia il viaggio nel suo aldilà caotico e onirico. L’aereo non è atterrato, l’aereo si è schiantato. Riuscirà a rendersene conto, o meglio accetterà di aprire gli occhi sulla morte?
Grandissima lode va fatta alla voce narrante/Fellini in smoking: Valter Malosti.
Il timbro è penetrante, la voce bella e profonda ma soprattutto il gioco di sfumature che riesce a creare e con cui narra tutta la vicenda accompagnando tutto lo svolgersi degli incontri tra i protagonisti sul palcoscenico è perfetto. Ovviamente tutta l’opera è in forma semiscenica accompagnata da voce narrante e sul palco vengono ambientati solo alcuni episodi o proiettate immagini e filmati.
La cosmogonia felliniana nei quadri dell’opera è al completo. I peccati in cui ci si imbatte nell’aldilà sono quelli condannati da tutti nella vita reale: il desiderio carnale sfrenato, l’anelito alla gloria, al successo, alle premiazioni-pagliacciate, persino la famiglia diventa un cimitero di aspirazioni. Tutta la serie di eventi rappresentati in scena sembrano casuali ma fondamentali per il cammino interiore del protagonista. I sogni sono inizialmente incubi o eventi incomprensibili ma poi illuminano piano piano il suo cammino fino alla conoscenza finale. Il subconscio non mente mai. La contrapposizione mondo dei vivi vs mondo dei morti è perenne in scena.
La Hostess, interpretata dalla bellissima Yulia Tkachenko (che interpreta anche una degli Astanti e la Jole) è sempre dolce, comprensiva, affettuosa con Mastorna, la sua Beatrice che ovviamente sa già tutto e cerca di rendere il trapasso nell’aldilà di Mastorna il più dolce possibile.
Il motel è senza corrente: buio, subconscio, smarrimento. Solo ceri e candele.
Portiere: “domattina potrete ripartire. Intanto si accomodi al bar”.
Nel night club del motel Mastorna assiste a una danza del ventre mortifera e procreatrice: l’odalisca danzante, Barbara Martinini, partorisce un bambino, un maschio, tutti gli Astanti applaudono gioiosi e deliranti, quasi commossi. Il ciclo della vita che si rinnova per l’eternità. Uno spettacolo che va in scena tutte le sere.
Mastorna è turbato vuole tornare in camera a suonare il suo rassicurante violoncello: fatemi tornare alla mia musica…
Purtroppo suona il portiere alla camera: bisogna prova un abito con il sarto. Cosa? Un abito?
Sì, perché l’immagine conta. Mastorna stremato si addormenta e ovviamente sogna: episodi, accadimenti, visioni, antiche memorie di vita reale.
Risveglio improvviso, Mastorna può ripartire. “Stanno venendo a prendere i suoi bagagli”.
Nel terzo quadro, il protagonista è all’aperto in una strada affollatissima, in cui Mastorna perde di vista il facchino con la custodia del suo caro violoncello, il motel non c’è più, ora solo chiese cristiane antiche e moderne, gotiche, barocche, moschee, pagode, sinagoghe, templi buddisti etc.
In scena un corteo di religiosi che si muovono quasi danzando, come se si fossero liberati dalle catene che avevano in vita, si battono il petto e intonano un coro.
“Chi sono?” domanda Mastorna “gente sicura, che ha fede, loro hanno sempre un futuro” risponde la Vigilessa che dovrebbe mantenere l’ordine.
Mastorna non ha i documenti da mostrare alla Vigilessa, non ha nulla. Ma la Vigilessa, la bravissima Vittoria Magnarello (che interpreta anche l’infermiera, l’assistente del truccatore, una parente di Mastorna, e partecipa al coro madrigalistico), pretende i documenti della sua identità.
Mastorna trova una stazione dove tutti sono impazziti, le destinazioni dei treni sono incomprensibili, tutti urlano e chiedono di amici e parenti. Il protagonista spaesato riconosce Venturini, il suo caro amico d’infanzia morto più di trent’anni fa. Ma allora sono morto? Primo indizio.
Risuona in orchestra una melodia lugubre e solenne, simile al Dies Irae, e poi quella dell’inno Te lucis ante terminum.
Quando si riprende, Mastorna è al commissariato della stazione, ma senza documenti validi non può raggiungere nessuna destinazione. Firenze, Firenze, Firenze: Mastorna vuole tornare a Firenze. Ma purtroppo nemmeno Dante è mai riuscito a tornare a Firenze né da vivo né da morto. L’infermiera-Suzuki gli implora di ricordare almeno un momento in cui nella vita reale è stato se stesso. Mastorna ancora non vuole credere a nessuno, lui sta solo sognando.
Mastorna torna in strada e si imbatte in un ometto ammiccante: il napoletano Armandino proboscide, interpretato da un vero animale da palcoscenico: Marco Manchisi.
Il nuovo Virgilio-Lucignolo di Mastorna.
Personaggio azzeccatissimo, lui che “non si fa fare fesso da nessuno”, lui che tanto ha capito tutto ma se ne frega alla grande: mangia, beve, si diverte e ben utilizza l’arnese per cui viene soprannominato proboscide, tanto qua siamo tutti già morti, Meglio divertirsi!
Mastorna implora l’ultimo arrivato in cui si è imbattuto di aiutarlo a chiamare casa per poter parlare con sua moglie, ma i numeri nella cabina telefonica sono irriconoscibili, la voce che risponde non lo riconosce: urla, frastuoni, un sibilo, echi…
Armandino premurosamente promette di aiutarlo a parlare con sua moglie.
Secondo coro dantesco, Inferno, XXV, 49-51, 58-63, 70-75. Vanni Fucci il dannato più superbo dell’Inferno, Caco, quattro ladri fiorentini (cinque, contando Cianfa Donati che non compare direttamente) che subiscono orribili metamorfosi serpentine. Dante premette alla descrizione le scuse al lettore se scriverà qualcosa di incredibile e si scuserà ancora se la sua penna ha trattato in modo impreciso e poco chiaro qualcosa di assolutamente mai visto, con un atteggiamento che non è di falsa modestia ma anticipa il tema della inesprimibilità della visione che sarà dominante nel Paradiso, proprio a causa dell’altezza sproporzionata delle cose vedute.
Nemmeno Mastorna può esprimere l’orrore delle cose vedute durante il girovagare con Armandino in cerca di un mago che lo aiuti a telefonare a sua moglie. Un libero sfogo all’irreale tra l’onirico e il mostruoso: insegne luminose, clown, donne nude, animali, diavoli, etc. Ennesimo night club: in pista un’orrenda cerimonia di accoppiamenti bestiali sotto l’attenzione bramosa di tutti. Armandino scova in un angolo un flaccido ometto seduto ad un tavolino, strizza l’occhio a Mastorna e lo invita a chiedere di Luisa, sua moglie. Niente, il mago non sente un sentimento puro, suggerisce di gridare: ti amo! Ti amo, ti amo, ti amo, tutti nel night club gridano: Luisa ti amo! Una voce remotissima arriva da lontano roca, flebile, solo un rauco gorgoglìo. Ma chissenefrega, lì fanno tutti festa, si divertono, si buttano giù dal terrazzo del locale in uno stato di ebbrezza totale, precipitando nel vuoto si schiantano al suolo putrefatti e poi si rialzano continuando a saltellare. Noi spettatori in sala lo sappiamo già, i coprotagonisti lo sanno già tutti, Fellini ti sta torturando, ma tu, Mastorna, che problema hai? Lo vuoi capire? Ci fai o ci sei? Sei morto! Nulla ti farà più male, non sarai più schiavo di nulla e di nessuno, buttati giù nel vuoto anche tu! I pezzi del puzzle lentamente, nella mente di Mastorna, si stanno ricomponendo.
Nel baccanale sfrenato una ragazza prende per mano Mastorna e insieme si buttano giù dal palazzo.
Tanto è l’entusiasmo che Mastorna decide di gettarsi una seconda volta nel vuoto, ma la caduta si arresta davanti a un donnone flaccido, grasso, enorme che si fa vento con un ventaglio di trine e lo invita ad entrare, a riposarsi un po’. In quell’ambiente il protagonista ritrova distesa su un canapè l’amante di un tempo, l’intonatissima e dolcissima Eleonora Lué (che interpreta anche l’entraîneuse, un Funzionario, l’Adelaide, la Madre di Mastorna, coro madrigalistico) ricordano i vecchi tempi e intonando un sussurro bellissimo chiede a Mastorna di domandare al loro angelo che li protegge (una figura alata azzurra dietro di loro) qualsiasi cosa, anzi di domandare del premio…
Mastorna deve ritirare un premio prestigiosissimo. C’è una cerimonia di gala, le nomination!
Matteo Baiardi, bravissimo, è il presentatore. Tutti applaudono ma per chi? Per cosa?
Mastorna è al trucco ma non si sente di meritare nessun premio, e poi che orrore questi show di premiazioni, fatti di competizione tra film, attori, registi, produttori, ma perché bisogna ambire, anelare a tutti i costi a partecipare anzi a vincere una statuetta e partecipare a queste pagliacciate? È questo il senso finale del lavoro in cui un’artista mette la propria anima? Un artista deve essere costretto e incalzato perennemente a lavorare per questo riconoscimento che Armandino definisce:” è buono, similoro, una medaglietta che ha anche un suo valore artistico. Pigliatela!”
Azzeccatissime in questo momento dell’opera le immagini proiettate sullo sfondo, grazie al lavoro eccelso del Visual Designer Sergio Metalli e del Light Designer Cesare Accetta, del provino che Fellini fece a Marcello Mastroianni, il quale doveva girare una scena suonando il violoncello ma si intuisce benissimo lo smarrimento del navigato attore totalmente spiazzato di fronte a un regista isterico (il video è tranquillamente rintracciabile su youtube). Mastorna grida di non essere lui, di non meritare alcun premio.
Mastorna non è ancora convinto di voler scegliere questo circo come sua eternità.
L’aria-monologo di Mastorna dell’ottavo quadro è il fulcro di tutta l’opera.
Veramente bisogna rimanere qui? Questa è la favolosa morte? Qui tutto è confuso e incomprensibile. Si sapeva che nell’aldilà bisogna pagare le pene delle proprie azioni per ricevere in cambio pace, certezze. Invece anche nell’aldilà si ricevono premi? Non c’è giudizio. Non c’è castigo. C’è solo un Tribunale falsato e impazzito.
Tra i presenti si fa spazio il professore di filosofia del Liceo di Mastorna, De Cercis, cinico e miscredente, Ken Watanabe (già interprete del portiere, del colonnello, e poi del padre di Mastorna) rincuora il protagonista in quanto anche lui è tra i pochi che non accetta questo schifo, dove tutti godono e si divertono per una medaglietta! Bravo Mastorna che non sei un pecorone come gli altri. ”Homo humanus” che combatte tutta la vita, diventa ”homo fregatus”. De Cercis accompagna Mastorna nel vecchio caffè dove si andava da ragazzi, incontrano l’Adelaide che appoggiava le tette sul bancone, Eugenio lo Spretato, quello che aveva buttato la sottana alle ortiche. Fanno ridere quelli che pretendono di esser decorati per le buone azioni. “…vivono una vita altruistica sacrificandosi in una dedizione all’umano progresso…la loro moralità ha bisogno delle paure dell’Inferno…” canta lo Spretato. Bellissimo il coretto tra De Cercis, l’Adelaide, lo Spretato e gli altri: “…
Siccome ha intrallazzato
Siccome ha meritato
Siccome si è pentito
Alfine gli han dato…
-l’Oscar del Padreterno!”
De Cercis e l’Adelaide si accasciano sulle ginocchia e si addormentano, c’è una maledizione terribile nell’aldilà: chi si addormenta viene buttato su un carro e portato via dal becchino. Il becchino, Aslan Halil Ufuk (che interpreta anche il parente di Mastorna e il truccatore durante la cerimonia), parla con Mastorna, rassicurandolo che anche lì c’è un unico e solo posto certo dove tutti quelli che smettono di divertirsi e poi si accasciano dormienti vengono portati: il cimitero.
Al cimitero, passeggiando tra le lapidi, Mastorna cerca la sua cappella di famiglia e vede i morti che escono dalle lapidi e accolgono i parenti in visita. Perché per lui non c’è nessuno? Appare la dolcissima e cara Jole, la tata di Mastorna, un incontro commovente. Mastorna chiede dei propri genitori e viene catapultato nella sua infanzia. Sul palco una cornice inquadra bene la chiusura dell’ambiente borghese in cui Mastorna si era trovato da ragazzo. Un aspirante musicista destinato a diventare un morto di fame, quando il padre si era raccomandato tanto per un posto in banca! Che scandalo! Che vergogna! Per non parlare del melodramma della madre che afferma, preparando il crème caramel, che morirà di crepacuore per i dolori procuratole dal figlio.
Poi arrivano piano piano gli zii e tutti gli altri parenti che circondano Mastorna: tutti inquietanti, curiosi, pettegoli, implorando affetto. C’è persino il marito della cugina del fratello di una zia. Mastorna lancia un tizzone ardente e da fuoco a tutto, forse questo è l’Inferno che deve bruciare. Il palcoscenico quasi sempre scuro si illumina di fiamme rosso fuoco infernali, quella realtà vissuta deve bruciare.
Nel finale, dodicesimo quadro, Mastorna forse è pronto per il suo cammino nell’aldilà. Il lucernario di un teatro semidistrutto si apre su di un cielo azzurro primaverile con le rondini che si rincorrono gioiosamente tra le nuvole dorate dal sole.
Mastorna è seduto con la sua Hostess-Beatrice su una panchina, il cuore è calmo e sereno.
Nello struggente duetto finale tra i due protagonisti, la Hostess chiede a Mastorna se è così bello vivere laggiù. Le case, le città, che significa piangere, cos’è l’amore.
Addirittura cita vagheggiando con la mente i versi di un tale Hölderlin che passò con lei una notte lassù. Proprio il poeta romantico tedesco che nella sua Hyperion cantava in versi l’impossibilità di raggiungere nel reale la perfezione e l’armonia idilliaca che solo nella Grecia classica era stata vissuta. Il presente è solo inquietudine, malessere, scontentezza.
Mastorna ormai non ha più nostalgia del cammino che ha percorso in vita, ha il cuore saldo e quieto, di fronte a lui l’immenso spazio azzurro del cielo vuoto.
Terzo coro dantesco, Inferno, XXXIV, 133-139 …E quindi uscimmo a riveder le stelle. Qui si cade nell’ovvio.
Ora Mastorna è pronto a camminare da solo nella sua città, che tanto assomiglia a Firenze. La voce narrante ci dice che tutto è illuminato, la gente è felice, negozi aperti con vetrine decorate. Tutto uguale, anzi più bello ma profondamente e macabramente diverso. Si affretta ad arrivare in teatro, si siede tra gli orchestrali che lo guardano incuriositi, persino sua moglie in un palchetto gli fa cenno di non perdere la concentrazione. Mastorna finalmente ritrova il suo posto, è parte integrata di un tutto finalmente orchestrato meravigliosamente.
Il violoncello è arrivato a Firenze dopo il disastro aereo ma Mastorna dov’era finito? Se lo chiedono tutti quanti. Il direttore d’orchestra alza la bacchetta e tutta l’orchestra inizia a suonare: geniale sestetto finale di Mastorna, la Hostess, e il coro madrigalistico tutti cantano: “Meraviglioso…Meraviglioso…Tutto è meraviglioso.” La musica è ampia, solenne, grandiosa, dolcissima e inebriante: è la musica dell’eternità che suona la meravigliosa sinfonia dell’esistente che vale la pena di essere vissuto.
La condanna subita dall’incompiuto film di Fellini è la stessa condanna inflitta al suo protagonista: l’indefinito, il caos delle infinte possibilità, la confusione. Mastorna, un musicista spaesato, un Orfeo che ha perso la strada, e non è nemmeno certo di essere finito nell’aldilà, affronta un viaggio che è un girotondo chiuso, un percorso oscuro nell’intasato e caotico aldilà con tutto il malessere che ne deriva, il medesimo malessere della vita quotidiana. Solo quando si libererà dall’intenzione di voler avere un’idea precisa di cosa sia quell’aldilà, cioè quando Mastorna rinuncerà allo sforzo intellettuale di voler proiettare la sua mente in una trascendenza imbevuta di filosofie tradizionali oltretutto con condanne moralistiche, una volta tolta ogni illusione di felice stabilità ultraterrena, egli allora dormirà sogni tranquilli. Infondo l’eternità è un attimo che appare all’improvviso, e non a tutti, è un cielo azzurro, una Firenze piena di allegria, ti risveglia dopo un lungo percorso penoso, interminabile e ti illumina su quale cammino intraprendere, basta indecisioni, basta confusioni, finalmente l’anima è sgombra.
Sicuramente anche Federico Fellini avrebbe dormito sogni più tranquilli se si fosse accontentato di raccontare i dubbi esistenziali dell’essere umano nel capolavoro compiuto e premiato, 8 e ½. Purtroppo non è andata così, il regista ha provato ad andare oltre, a compiere un viaggio che lo ha portato nelle profondità inesplorate del suo inconscio, sul ciglio di un abisso infinito, fino quasi ad esaurirlo completamente ma per fortuna si è fermato giusto in tempo. Federico Fellini si era ormai convinto che Giuseppe Mastorna fosse lui, quindi quel film non avrebbe mai dovuto girarlo. Rinunciando a quel film ha ricominciato a sognare il bello, regalandoci altri grandi, indimenticabili, capolavori. Certo, come tutti i fantasmi, Mastorna tornerà ancora nella vita artistica di Fellini, sarà un serbatoio prezioso da cui attingere continuamente idee, fantasie e immagini per i suoi film successivi.
Se Mastorna ha giocato un brutto scherzo a Fellini, il compositore dell’opera andata in scena in prima assoluta a Rimini ha giocato un brutto scherzo sia a Mastorna che a Fellini. Dalle macerie rimaste di un’opera incompiuta, il compositore ha infatti creato un lavoro compiuto e perfetto.
Ci riferiamo a Matteo D’Amico, musicista eccelso e vanto della cultura italiana nel mondo, autore anche del libretto, il quale si è avvalso di un’orchestra di soli 18 strumentisti, l’Orchestra Arcangelo Corelli diretta da Jacopo Rivani, si penserebbe subito a una musica da camera, invece la sua musica mercuriale segue fluidamente ogni quadro dello spettacolo, sottolineando ogni diversa emozione che si manifesta tra i protagonisti, rifuggendo ovviamente da qualsiasi contemplazione lirica e riesce a racchiudere il tutto, compresa la voce del narratore/Fellini, in un fiume ininterrotto di musica che è il tappeto sonoro dello svolgimento della vicenda ma allo stesso tempo lascia ascoltare allo spettatore ogni singola nota di ogni preciso strumento, per manifestare le singole sfaccettature solistiche di tutti i protagonisti che appaiono nello spettacolo. Grandioso lavoro di un grandissimo musicista che si è cimentato in un’impresa al limite del fattibile.
Lo spettacolo, non di lunga durata con scene e costumi molto belli di Davide Amadei, ha avuto un clamoroso successo grazie al connubio geniale compositore-regista e a un cast preparatissimo. Nonostante l’indiscutibile attenzione e impegno che viene richiesta allo spettatore, la creazione artistica è risultata molto coinvolgente e densa di approfondimenti. Lode al Teatro Galli di Rimini che cimentandosi in questa folle impresa si è dimostrato degno concittadino dell’amato Regista, onorandolo in occasione del centenario della nascita.
Renato Olivelli
(23 ottobre 2021)
La locandina
Direttore | Jacopo Rivani |
Regia | Valter Malosti |
Scene e costumi | Davide Amadei |
Light designer | Cesare Accetta |
Visual designer | Sergio Metalli |
Personaggi e interpreti: | |
Narratore / Federico Fellini | Valter Malosti: |
G. Mastorna | Luca Grassi |
La Hostess, una degli Astanti, Jole | Yulia Tkachenko |
Una Vigilessa, un’Infermiera, L’assistente del Truccatore, una Parente di Mastorna, coro madrigalistico | Vittoria Magnarello |
Un’Entraîneuse, un Funzionario, l’Amante di un tempo, | |
l’Adelaide, la Madre di Mastorna, coro madrigalistico | Eleonora Lué |
Il Becchino, un Parente di Mastorna, il Truccatore, coro madrigalistico | Aslan Halil Ufuk |
Il Portiere, un Colonnello, un Giovinotto ubriaco, il prof. De Cercis, il Padre di Mastorna, coro madrigalistico | Ken Watanabe |
Armandino, lo Spretato | Marco Manchisi: |
Il Presentatore | Matteo Baiardi: |
Danzatrice | Barbara Martinini |
Orchestra Arcangelo Corelli | |
Prima rappresentazione assoluta |
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