Roma: il Puccini e Ravel per il secondo Dittico Scomposto

Una grande scalinata con in alto un ballatoio al quale si accede passando attraverso un’apertura monumentale che riproduce il ghigno vorace di un mostro a fauci spalancate tipo quelli di Bomarzo, simbolo di avidità. In basso, la dimora fiorentina di Buoso Donati, un enorme letto al centro della scena col morto sdraiato fra le coltri, ai lati un camino, alcune sedie, poltroni, divanetti, e un secrétaire.  A poco a poco, in silenzio, prima che l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma diretta da Michele Mariotti dia inizio all’ouverture di Gianni Schicchi, i sedici personaggi che bramano di ereditare i beni del riccone defunto, scendono lentamente dalla scalinata coi loro costumi in velluto e taffetas dai colori sgargianti, dove il giallo sfida il viola, l’arancio rincorre il rosso dantesco, la gonna cortissima di Zita  la Vecchia, taccagna, sordida, gretta e  spilorcia che  si oppone alle nozze del nipote Rinuccio con Lauretta, figlia di Schicchi, compete con l’abito lungo da grande soirée della Ciesca, l’altra parente in cerca di pecunio moglie di Marco.
Per il suo esordio a Teatro dell’Opera di Roma, ha scelto dunque una soluzione maestosa e straniante Ersan Mondtag, il giovane regista tedesco, turco di origine, chiamato ad allestire l’atto unico dei tre che compongono il trittico di Giacomo Puccini.

Nell’anno del centenario della morte del celebre compositore, il progetto del Trittico scomposto, voluto dal Maestro Mariotti, che lo scorso anno ha proposto l’abbinata del Tabarro con il Barbablu d Bela Bartok, prevede  dunque l’accoppiata  di Gianni Schicchi, opera in un atto su libretto di Giovacchino Forzano, che debuttò nel 1918 al Metropolitan di New York,   e dell’Heure espagnole, opera buffa  composta da Maurice Ravel e ispirata alla commedia  dello stesso librettista Franc Nohain, al  secolo Maurice Etienne Legrand, andata in scena per la prima volta a Parigi alla Salle Favart  nel maggio 1911.

Due opere apparentemente eterogenee eppure legate da una sottile affinità, non solo musicale, ma drammaturgica. E per cogliere tale affinità bisogna tornare all’entusiasmo di Maurice Ravel, uno dei rari compositori francesi a conoscere bene l’opera di Puccini e ad apprezzarla.

“Ammirava molto Puccini e soprattutto apprezzava l’uomo che non aveva un partito preso e si è sempre tenuto al corrente della musica più avanzata”, ricorderà il suo allievo Maurice Rosenthal. E bisogna entrare nella dimensione dell’ipocrisia delle famiglie disfunzionali, coppia o parentado che sia, famiglie dominate da interesse, avidità, menzogne e una parata di affetti di comodo, per capire cosa giustifichi l’abbinamento tra due opere pur contemporanee ma diversissime.
La prima, ispirata a un personaggio della Divina Commedia, Gianni Schicchi, condannato fra i falsatori di persone, che nell’inferno dantesco   corrono come maiali liberati dal porcile, per aver falsificato a suo favore il testamento di Buoso Donati, il quale aveva diseredato i parenti per un convento di frati.  La seconda, è un’opera buffa, derivata dal “vaudeville pornografico” di Franc Nohain, che ruota intorno alla moglie di un maestro orologiaio di Toledo, Concepión, donna dal vorace appetito sessuale, la quale tradisce allegramente il marito, accogliendo nella sua bottega i suoi due amanti, manipolandoli  come   burattini, obbligandoli a nascondersi dentro le pendole di ogni formato, finché non cade nelle braccia dell’aitante mulattiere incaricato di trasportare le suddette pendole da un piano all’altro.
Ecco dunque che unificato dalla comune scenografia, se non fosse per gli arredi neorinascimentali della casa di Buoso, e per i video futuribili proiettati sulle volte dela bottega di Toledo, con dischi volanti,  pterodattili che incombono dal cielo, lande desolate andate in fumo, e persino un teschio in formaldeide che spunta fuori d’improvviso, riverso come un Cristo, per scomparire subito nel nulla, questo Dittico paradossale formato dall’atto unico di Puccini e dall’atto unico di Ravel dovrebbe rappresentare   l’idea del mondo prima e dopo  e dopo l’Apocalisse. “Finito il mondo gli uomini continua a vivere gli stessi conflitti, come se niente fosse” avverte infatti il regista Ersan Mondtag, che resta l’artista di strada dei suoi esordi, avvezzo a ogni tipo di provocazioni pur di attrarre l’attenzione del pubblico. E pazienza per le molte incongruenze e per il sacrificio dell’ironia corrosiva che costella le due opere. Qui tutto viene preso molto sul serio, drammaticamente sul serio, senza sprazzi di speranza, senza alcuna levità.

Gianni Schicchi, dal momento in cui compare  ruba letteralmente scena, col talento magistrale di Carlo Lepore, sempre preciso e però imprevedibile, come quando inizia a mimare la voce del trapassato Buoso, per fare testamento in sua vece ma a vantaggio di sé medesimo. Fermi sullo sfondo, i comprimari cantano a venti metri di distanza dall’orchestra, e persino di più  quando salgono sul ballatoio,  tanto da risultare inaudibili dalla platea e forse persino al direttore. Eppure Puccini resta sempre Puccini anche se le voci non si sentono, e anche se manca lo scatto improvviso, il nervosismo, l’elettricità di certi passaggi. Mariotti dirige come sempre a modo suo e in modo impeccabile, costruendo ampie volute, concentrandosi sui blocchi, sui volumi, sull’ascesi, portando l’orchestra del teatro romano verso un suono stereofonico.

Nell’Heure espagnole, la vera prodezza è il soprano francese Karine Dehayes che interpreta la moglie ninfomane del cornuto Torquemada, l’orologio  di Toledo (un puntuale sebbene a volte un po’ sbiadito Ya Chung Huang). Concepión si alza, si muove, si dimena   come se fosse  in preda a un raptus, il raptus dell’erotismo inappagato, sale e scende le scale, cantando magnificamente, ogni singola gamma dei molti registri di questa complessa partitura. Ravel voleva rigenerare l’opera buffa italiana in una forma nuova. E attraverso la musica, l’armonia, il ritmo, l’orchestrazione voleva esprimere ironia, lavorando sull’accentuazione arbitraria delle parole. Ecco allora i giochi di parola, le allusioni salaci, il divertimento al quadrato che viene fuori da questa commedia degli equivoci e dei qui pro quo, fino a inchiodare i personaggi alla malinconia dell’illusione.

Drammaturgicamente lo spettacolo, gustosissimo, si regge tutto sulle spalle di Markus Werba. E in senso letterale,  visto che il grande baritono austriaco interpreta Ramiro, il mulattiere che  solleva di peso le pendole in cui Concepción ha nascosto i suoi due amanti,  il vecchio altolocato finanziere, Don Inigo Gomez, e il giovane svalvolato torero Gonzalve. Ramiro se li carica in spalla tutti e due e li porta allegramente su e giù per le scale, finché la bella Concepción non scopre la prestanza dell’umile mulattiere invitandolo a goderne a vicenda nella sua alcova.
Tripudio di applausi ai cantanti, e al direttore, in assenza del regista alla seconda recita romana.

Marina Valensise
(11 febbraio 2024)

La locandina

Direttore Michele Mariotti
Regia e scene Ersan Mondtag
Costumi Johanna Stenzel
Luci Sascha Zauner
Video Luis August Krawen
Drammaturgia Till Briegleb
Personaggi e interpreti: 
Gianni Schicchi
Gianni Schicchi Carlo Lepore
Lauretta Vuvu Mpofu
Zita Sonia Ganassi
Rinuccio Giovanni Sala
Gherardo Ya-Chung Huang
Nella Valentina Gargano
Gherardino Leopoldo Finotti
Betto Roberto Accurso
Simone Nicola Ulivieri
Marco Daniele Terenzi
La Ciesca Ekaterine Buachidze
Spinelloccio Domenico Colaianni
Ser Amantio di Nicolao Mattia Rossi
Pinellino Marco Severin
Guccio Roberto Valenti
L’heure espagnole
Torquemada Ya-Chung Huang
Concepción Karine Deshayes
Gonzalve Giovanni Sala
Ramiro Markus Werba
Don Iñigo Gomez Nicola Ulivieri
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

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