Roma: la Jenůfa asciutta ed essenziale secondo Guth
Torna l’opera di Leos Janáček al Teatro dell’Opera di Roma e torna alla grande col miglior spettacolo della stagione 2023-2024. Dopo la Kata Kabanova (1918) coproduzione con Royal Opera House di Londra, messa in scena nel 2022 sotto la direzione di Davide Robertson e con la regia di Richard Jones, dopo La casa dei Morti (1927) coproduzione col Covent Garden, la Monnaie di Parigi e l’Opera di Lione, visto l’anno scorso con la regia di Krzysztof Warlikowski e la direzione di Dmitry Matvienko, arriva il terzo capolavoro della triade scelta da Carlo Fuortes e Alessio Vlad, prima di passare la mano a Francesco Giambrone. Ed è il turno di Jenůfa (1904), opera in tre attim tratta dal dramma teatrale di Gabriela Preissova, Její pastorkyňa (La sua figliastra) e composta su libretto dello stesso Janáček. Un’opera originalissima che per il sessantenne musicista di Brno, amato da Milan Kundera, segnò l’inizio di una feconda e inattesa stagione creativa anche se dovette aspettare ben dodici anni, dopo la prima del 1904 al Teatro Nazionale di Brno, per venire riconosciuta come un capolavoro musicale del Novecento, grazie alla nuova strumentazione realizzata da Karel Kovarovic per il Teatro nazionale di Praga il 26 maggio 1916.
Jenůfa, questa fosca storia di un amore violento e impossibile tra una donna e i suoi due cugini, e dell’infanticidio perpetrato da una zia bigotta per salvare l’onore di famiglia e la nipote derelitta da una sorte vieppiù tragica, mancava dal Costanzi da quasi cinquant’anni. A dirigerla nella primavera 1976 fu Lovro von Matačic mentre la regia fu affidata alla grande Margherita Wallmann e i cantanti erano in parte italiani. La nuova edizione romana, sempre frutto di una coproduzione col Covent Garden, con la direzione musicale di Juraj Valčhua e la regia del tedesco Claus Guth è stata accolta con entusiasmo dal pubblico romano che ne ha apprezzato grandemente la magistrale esecuzione e l’eleganza dell’allestimento.
Lo slovacco Valčhua, nativo di Bratislava, che oggi è capo dell’Orchestra Sinfonica di Houston e si divide come direttore ospite tra la Konzerthausorchester di Berlino e la Yomiuri di Tokio, considera il ceco Janáček un innovatore visionario, sensibile al versante psicologico che innerva le sue opere e straordinariamente in linea col fervore creativo della Vienna del primo Novecento, pur coltivando uno stile armonico tutto suo. Valčhua ha diretto quest’opera singolare e lontana dal gusto italiano, guidando l’orchestra romana con perfetta sicurezza, pronto a restituirne le combinazioni inattese, gli abbinamenti strumentali, i repentini cambi di metro, senza mai soverchiare le voci e la tessitura della parola scenica che nella musica di Janacek segue la lingua parlata, il ritmo dell’espressione orale, il peso stesso della melodia vocale.
È nota infatti la passione di Janáček per la semantica musicale e la sua ricerca sulle melodie del parlato, che registrava meticolosamente annotando su un taccuino i vari accenti, le intonazioni, le modulazioni della voce e la variazioni di pronuncia di una stessa parola che poteva suonare “a volte morbida come una fiamma, a volte rude e dura come una punta”, per trascrivere poi ogni notazione in un suono, in un nota, quasi a raccogliere l’inventario competo dei moti dell’animo e delle loro infinite declinazioni popolari.
Sostenuti da una direzione impeccabile, i cantanti hanno dato il meglio di sé traducendo tutte le gamme di questo dramma psicologico verista che scuote una piccola comunità contadina morava, chiusa nel suo conformismo, nell’ossessione del controllo sociale, nella paura delle passioni e della vita priva di regole.
Grande prova della svedese Cornelia Beskov nel ruolo del titolo, con la sua vocalità piena di sfumature e rotta dall’emozione, e però sempre tesa sul filo dei nervi.
Potente il soprano finlandese Karita Mattila nel ruolo della Kostelnička, la sacrestana bigotta, madre adottiva della protagonista. Ieratica e impenetrabile la nostra Manuela Custer che dava voce alla vecchia Buryovka, proprietaria del mulino in cui vivono le due donne, e nonna di due nipoti, Jenůfa il seduttore (un ottimo Robert Watson nel ruolo dell’ereditiere spaccone sciupafemmine e ubriacone), e Laca (un generoso Charles Workman) l’ingenuo innamorato, che sebbene abbia sfregiato il volto della cugina Jenůfa con la lama di un coltello, finirà per impalmarla.
A valorizzare la performance dei cantanti c’è soprattutto la regia del tedesco Claus Guth, uno dei protagonisti del regie-theater, sempre attento a stabilire una connessione mentale e emotiva con mondo contemporaneo anche senza ricorrere al trasloco. Guth immaginato una regia asciutta, severa, elegante, controllatissima e astratta, scandita sui toni del grigio, del crema, del nero, coi costumi d’epoca rigorosamente sui toni del grigio e del nero, disegnati da Gesine Völlm.
Per le scene di Michale Levine, un immenso spazio rettangolare si dischiude dietro la griglia geometrica del sipario, mostrando il mulino a vento abitato da una teoria di letti, tavoli, e lampade che si susseguono lungo i muri, mentre le pale girano e i personaggi in primo piano si inseguono, si cercano, si schivano e si separano. Nel secondo atto, i letti privi dei loro materassi e posti in verticale con le sole reti vengono a disegnare il perimetro della gabbia in cui è rinchiusa Jenůfa la ragazza madre, la figliastra della Kostelnička, la sacrestana Buryjovka, che ha vissuto il suo stesso dramma e per scongiurarne la sorte la nasconde col neonato frutto del peccato, implorando il padre, e cioè Jenůfa (che è anche il nipote del suo defunto marito alcolizzato e violento), di contrarre un matrimonio riparatore, prima di maledirlo quando costui confessa che non ama più Jenůfa, da quando il fratello Laca, da lei respinto, l’ha sfregiata.
E così che nel buio pesto di un carcere tutto simbolico, circoscritto da brande di ferro, prende vita il dramma e il melodramma di Jenůfa fra un mare di fiori gialli disseminati per terra. E prende vita con l’infanticidio perpetrato dalla Kostelnicka che getta il neonato nelle acque gelate del fiume per salvare la figliastra, e poi col ritrovamento del cadaverino congelato mentre Jenůfa sta per convolare a nozze con Laca, e infine col linciaggio di una folla di contadini in costume pronti a lapidare la madre presunta colpevole, e col perdono che prelude al lieto fine quando, placata la passione, in nome dell’amore il matrimonio libera Jenůfa dal peccato, offrendole una nuova vita con Laca.
Marina Valensise
(4 maggio 2024)
La locandina
Direttore | Juraj Valčuha |
Regia | Claus Guth |
Scene | Michael Levine |
Costumi | Gesine Völlm |
Luci | James Farncombe |
Video | Rocafilm/Roland Horvath |
Coreografia | Teresa Rotemberg |
Drammaturgia | Yvonne Gebauer |
Personaggi e interpreti: | |
La Vecchia Buryjovka | Manuela Custer |
Laca Klemeň | Charles Workman |
Števa Buryja | Robert Watson |
La Sagrestana Buryjovka (Kostelnička) | Karita Mattila |
Jenůfa | Cornelia Beskow |
Il capomastro del mulino | David Stout |
Il sindaco | Lukáš Zeman |
Sua moglie | Anna Viktorova |
Karolka | Sofia Koberidze |
La pastora | Ekaterine Buachidze |
Barena | Valentina Gargano |
Jana | Mariam Suleiman* |
La zia (Tetka) | Silvia Pasini |
Una voce di donna | Claudia Farneti |
Una voce di uomo | Maurizio Cascianelli |
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’opera ii Roma | |
Maestro del Coro | Ciro Visco |
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