Salisburgo: Hoffmann va al cinema

Sulla carta gli elementi per un’operazione di successo c’erano davvero tutti: un titolo di grande richiamo presentato nella più completa e convincente delle edizioni critiche – ovvero quella Kaye-Keck –, un direttore capace come pochi di vivere l’autore, un protagonista di caratura eccezionale , una regista con un discreto curriculum.

E invece no: i Contes d’Hoffmann proposti al Festival di Salisburgo – per altro con incontrovertibile successo di pubblico – si sono rivelati un’occasione sprecata a cominciare dalla regia velleitaria di Mariame Clément che, insieme al drammaturgo Christian Arseni, depriva la narrazione di tutti gli elementi fantastici e metaforici della fonte letteraria cui attinge il libretto per collocarla in una dimensione del tutto prosaica e anche un po’ presuntuosa.

L’azione è calata in un complesso di studi cinematografici – le scene sono di Julia Hansen che firma anche costumi di foggia contemporanei – nei quali l’eroe eponimo è un regista fallito e ridotto a clochard si aggira spingendo un carrello della spesa pieno di lacerti dei suoi insuccessi.

Responsabile delle sue disgrazie è Stella, che via via veste i panni di Olympia non più automa ma divetta capricciosa di un B-Movie di fantascienza che fa il verso a Barbarella per diventare poi Antonia in un dramma borghese in costume diretto dallo stesso Hoffman durante il quale la primadonna firma un contratto con la concorrenza causando un attacco di cuore al protagonista.

Giulietta è invece la stessa Stella che rivela la sua vera natura senza più infingimenti, con il poeta-regista che uccide il rivale Schlemil colpendolo con un Oscar.

È tutto sbagliato: dall’ipertrofismo dei cliché proposti – che passano dal dito medio esibito a mo’ di Leitmotiv da Olympia e Antonia, che si attacca pure alle tende come un’ Eleonora Duse dei poveri, all’air-guitar di Frantz, all’uso eccessivo di controscene che letteralmente si perdono nello spazio teatrale immenso del Grosses Festspielhaus.

Peccato, perché Clément dimostra di saper ben gestire i movimenti scenici, ma in questa occasione lo fa in maniera incongrua pur dichiarando nell’intervista pubblicata nel programma di sala il suo intento di fedeltà al testo.

Luci ed ombre, soprattutto ombre, per quanto attiene al versante musicale.

Benjamin Bernheim si rende protagonista di una prova maiuscola dando vita ad un Hoffmann dal fraseggio finemente cesellato poggiando tutto su una linea di canto adamantina e un timbro di assoluto fascino. Purtroppo è pressoché l’unico a distinguersi positivamente.

Marc Minkowski, offenbachiano di rango, è qui irriconoscibile – forse anche per via di un’evidente mancanza d’intesa con i Wiener Philharmoniker per altro in forma smagliantissima – nella concertazione elegantemente insipida del Prologo e dei primi due atti che diventa greve e morchiosa nei successivi e nell’Epilogo, con metronomi catatonici e agogiche sommarie.

Kathryn Lewek, chiamata ad interpretare i quattro personaggi femminili, si rivela ampiamente sottodimensionata all’impresa. Nonostante il curriculum ci di dica delle sue trecento Regine della Notte gli acuti e le colorature necessarie a caratterizzare Olympia latitano o sono filiformi, così come il pathos di Antonia e l’insinuante perfidia di Giulietta e Stella si smarriscono tra centri vuoti e un overacting vocale decisamente fastidioso.

Dal canto suo Christian Van Horn – Lindorf, Coppélius, Dr Miracle, Dapertutto – ha mezzi torrenziali e presenza scenica da vendere ma sembra più Donner che non i quattro vilain capaci di distruggere i sogni di Hoffmann.

Kate Lindsey ha voce tutt’altro che brutta, ma non si possono cantare Nicklausse e la Muse masticando sistematicamente tutte le parole.

Risollevano le sorti gli interpreti delle parti che nell’occasione sarebbe riduttivo definire “di contorno” – eccezion fatta per il pessimo Jérôme Varnier nel doppio impegno come Luther e Crespel – con su tutti l’incantevole Géraldine Chauvet come Voix de la Mère.

Bravi dunque Michael Laurenz, Spalanzani-regista, Marc Mauillon proteiforme Andrès-Cochenille-Frantz-Pitichinaccio, Philippe-Nicolas Martin (Hermann e Peter Schlémil), Paco Garcia (Nathanaël) e Yevheniy Kapitula (Wilhelm).

Sontuosa la Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, che impressiona ache per le doti attoriali dei suoi componenti, preparato da Alan Woodbridge.

Dopo qualche dissenso alla fine del primo atto il pubblico, come si diceva, gradisce e applaude tutti riservando ovazioni meritatissime a Bernheim.

Alessandro Cammarano
(16 agosto 2024)

La locandina

Direttore Marc Minkowski
Regia Mariame Clément
Scene e costumi Julia Hansen Sets and Costumes
Luci Paule Constable
Video Étienne Guiol
Coreografia Gail Skrela
Drammaturgia Christian Arseni
Personaggi e interpreti:
Hoffmann Benjamin Bernheim
Stella / Olympia / Antonia / Giulietta Kathryn Lewek
Lindorf / Coppélius / Dr Miracle / Dapertutto Christian Van Horn
La Muse / Nicklausse Kate Lindsey
Andrès / Cochenille / Frantz / Pitichinaccio Marc Mauillon
La voix de la mère Géraldine Chauvet
Spalanzani Michael Laurenz
Crespel / Maître Luther Jérôme Varnier
Hermann / Peter Schlémil Philippe-Nicolas Martin
Nathanaël Paco Garcia
Wilhelm Yevheniy Kapitula
Wiener Philharmoniker
Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor
Maestro del Coro  Alan Woodbridge

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