Simone Derai: Anagoor e il Teatro come luogo della mente
In questi giorni di emergenza, in cui i teatri purtroppo tacciono, abbiamo raggiunto – virtualmente – Simone Derai, autore, regista e nel 2000 fondatore della Compagnia Anagoor che dirige con Marco Menegoni. Nel 2018 Anagoor ha ricevuto il Leone d’Argento per il Teatro alla Biennale di Venezia dopo essere stata premiata negli anni con numerosi riconoscimenti internazionali.
- Anagoor, la città che solo pochi trovano e nella quale quasi nessuno entra, è – come spesso accade nei romanzi di Buzzati – un luogo della mente. Tu e Marco Menegoni avete trovato la porta d’accesso?
A dire il vero siamo ancora fuori dalle sue mura. In attesa come tutti. Desiderio, sogno, tensione e sete di conoscenza non si sono mai spenti. Ma è qui, tra le carovane che attendono, che abbiamo incontrato i nostri compagni di viaggio. La nostra Anagoor nasce principalmente quando le persone si incontrano fuori della sua cerchia di mura turrite, in quel momento si materializza sulle mappe. Poi scompare. Come il teatro che esiste per una sera soltanto e poi svanisce. Sembra un miraggio, ma non lo è: è esperienza autentica e concreta. Sorreggono le fondamenta di questa città dell’utopia uno sconfinato amore per il teatro in ogni sua forma, un lavoro costante e una continua ricerca che coinvolge tanti artisti e tanti diversi interessi: nelle collaborazione pluriennali all’interno del collettivo, l’aspetto artistico è inscindibile dai rapporti umani che lo caratterizzano.
- Non so se il termine “teatro di ricerca” sia ancora attuale, tuttavia la vostra proposta scava a fondo nei testi, anche modificandoli quando non reinventandoli secondo percorsi drammaturgici ben precisi. Come si sviluppa il vostro processo creativo?
Credo che alla base ci sia la necessità di indagare aspetti dell’esistenza che per la loro complessità non riescono ad essere “detti” solo attraverso le parole. Ecco allora che nella composizione drammaturgica, accanto alle diverse fonti letterarie che possono intervenire nella stesura di un vero ipertesto scenico, emergono il canto, la musica, il cinema e la danza. Un passaggio del testimone nello strenuo tentativo di dare parola all’infandum.
Lo straordinario esametro virgiliano “Infandum regina iubes renovare dolorem”– “Tu vuoi, regina, che io rinnovi il dolore“, di cui anche Dante si ricorderà nel XXIII Canto dell’Inferno “Tu vuoi ch’io rinnovelli / disperato dolor che il cor mi preme” – è un paradigma che ci accompagna nell’interrogarci sulla natura dell’arte e della poesia, sulla sua necessità e sulla sua inefficacia. Come dire a parole un dolore che non si può dire?
- Il patrimonio classico è parte essenziale nella narrazione teatrale di Anagoor, penso all’Orestea e a Socrate il sopravvissuto/come le foglie; è difficile rendere la modernità dell’antichità?
Il classico è un corpo morto, perennemente dissepolto e riesumato. Si tratta di mettersi à l’école de la mort per soffiare nel cadavere un po’ di respiro, perché ancora parli. Ma questa operazione da negromanti non serve, come si dice spesso, ad illuminare il presente. Siamo noi, dalla nostra posizione, viziando con il nostro punto di vista l’interrogativo di volta in volta posto al classico, a illuminare il passato e rivelare ciò che prima non era visibile. Solo dopo, scoperte le differenze e le distanze che ci separano dal passato, possiamo riguardare il presente con occhi più consapevoli.
- Mi parli un po’ della ricerca che sta alla base dei video, parte essenziale delle vostre produzioni?
La manifestazione luminosa dell’immagine video appare quasi sempre sulla superficie di un diaframma, o su una tavola-schermo visibilmente sospesa al di sopra delle teste degli attori. Il diaframma o lo schermo sono un corpo fisico, scultoreo sulla cui pelle appare diafana la figura di un fantasma, un volto, un luogo perduto, un orizzonte, un animale, delle storie antiche… Allarga il campo di visione dello spettatore, come un varco su un altro tempo e un altro spazio. Il nostro teatro accoglie le tecniche del cinema nella propria sintassi invitando lo spettatore ad accogliere piani di lettura doppi, spesso paralleli o, altrettanto spesso, contrastanti. Nella dialettica tra scena, suono (musica o parola) e immagini proiettate risiedono le coordinate mentali (e sentimentali) del nostro teatro.
- Vi ho conosciuto con Et manchi pietà, dove la musica dal vivo si fonde con immagini e testi; poi è venuto il teatro in musica propriamente detto. Come si passa dal repertorio del tardo Rinascimento al Grand Opéra del Faust di Gounod mantenendo intatto il vostro messaggio?
In realtà alcuni temi e suggestioni “migrano” da un lavoro all’altro: e ogni creazione finisce per dialogare con quelle che l’hanno preceduta, permettendo sempre un percorso di coerenza. Il teatro musicale esalta un metodo di lavoro già visibile nelle altre creazioni – in Tempesta in relazione a Giorgione, e poi in Fortuny e in Virgilio Brucia – facendoci procedere verso l’opera e il suo autore come verso un oggetto da osservare criticamente. Nel caso di Et manchi pietà erano l’opera di Artemisia Gentileschi e il peso del portato biografico sul giudizio e sulla fortuna dell’opera ad essere osservati. Così per il Faust di Gounod, ma anche per Das Paradies und die Peri di Schumann, le relazioni intrinseche tra autore e composizione, temperie storica e vicenda biografica, ossessioni, fragilità, dolori personali e intenti filosofici sono diventate temi non solo attraverso i quali guardare l’opera per darne una traduzione scenica, ma che trovano spazio nella scena stessa. Una scena insieme emotiva e critica.
- Con Das Paradies und die Peri – pagina quanto mai attuale dato il momento – avete toccato un vertice assoluto; anche nell’oratorio di Schumann, come nelle Mura di Anagoor di Buzzati, si parla di un ingresso negato. È stato complesso schiudere alla Peri le porte del Paradiso?
Potrei rispondere che è sufficiente stare in ascolto di Schumann per sentirsi schiudere personalmente. Ma lo stesso ascolto porta all’intima rivelazione di un tormento profondo che affligge e che turba. Si dice che in Schumann tutto sia autobiografico. L’esito supremo di questo grande autore è dettato dalla sua capacità di infondere la composizione di tutto se stesso senza ridurla ad una visione chiusa, ego-limitata, ma al contrario offrire per tutti noi un’apertura di senso inaspettata, un fiume che scorre verso qualcosa più alto. In questo senso le note di apertura dell’opera e i primi versi destinati alla voce morbida, quasi materna dell’angelo, insolitamente un alto, sono scelte eloquenti: “Alle porte dell’Eden nell’aurora del mattino/ stava una Peri con il suo dolore./ Ascoltava di dentro la fonte della vita,/ sgorgare come musica”. Credo non esista pagina più dolorosa e al tempo stesso dolce come una promessa di apertura.
Dal punto di vista della produzione, il lavoro è durato più di un anno. Si è trattato di visitare gli stessi luoghi che sono centrali nel poema di Moore: per riconquistare l’Eden perduto, la Peri vola alla ricerca di un dono che sia gradito al cielo e lo fa spingendosi fino ai confini dell’antica Persia. Quest’idea ha comportato la progettazione di un viaggio per la realizzazione di un film in Iran, in Turchia, ai confini con la Siria e anche una collaborazione con il Museo egizio di Torino. La quantità impressionante di immagini raccolte, attraverso un lungo lavoro di distillazione, hanno portato alla creazione della drammaturgia che si lega intimamente al testo di Moore e alla musica di Schumann. Un esperimento scenico, così come un esperimento di teatro musicale fu il componimento di Schumann: non un’opera, non un concerto, non un oratorio, ma un poema in musica che aveva la stoffa tanto del teatro quanto della musica. Non un’opera, né non un concerto, ma “teatro per la mente”.
Non solo perché questi che viviamo sono giorni tremendi, ma è sufficiente pensare al segmento centrale quello della pestilenza per comprendere la grandezza di questo autore: le pagine del sacrificio della giovane che non vuole abbandonare il proprio amante, condannato dalla malattia e dal confinamento ad una morte solitaria, e contagiata pur di stargli accanto muore nell’ultimo abbraccio, troviamo tutta la tensione drammatica di cui la musica di Schumann è capace.
- Ultima domanda: quanto è importante lavorare con un gruppo stabile di collaboratori?
È fondamentale: ci consente di avere una storia comune, condividere esperienze, immaginari, poetica. Tutto questo fortifica non solo il progetto ma anche le relazioni umane.
Alessandro Cammarano
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