Ti conosco mascherina!
«Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia»: Giacomo Puccini non era uno che lesinava le parole, tanto meno quando parlava di Torre del Lago: quello era il suo luogo del cuore, un borgo selvaggio, semideserto («abitanti 120, 12 case»), ideale per comporre e andare a caccia, immerso in un ambiente naturale affascinante e ispirante. Li amava talmente, quel villaggio e quel padule con i loro “tramonti lussuriosi”, da confessare che gli sarebbe piaciuto molto che una sua opera fosse rappresentata lì all’aperto, sulla riva del lago di Massaciuccoli, a poche decine di metri dalla villa che si era fatto costruire. Fin che è vissuto non è accaduto, ma ben presto, dopo la sua morte, quell’antico desiderio ha trovato realizzazione. La prima Bohème a Torre del Lago risale al 24 agosto 1930, sul podio Pietro Mascagni, gran cerimoniere Giovacchino Forzano, il librettista di Suor Angelica e Gianni Schicchi, ben allineato con il regime fascista e infatti forte di un decisivo appoggio del Ministero della Cultura popolare per il suo “Carro di Tespi lirico”, nell’ambito del quale era stato organizzato l’omaggio. Era il primo atto di quello che sarebbe diventato, dopo la Seconda guerra mondiale, il Festival Puccini, il più antico fra quelli italiani dedicati monograficamente al compositore “di casa”, visto che quello rossiniano a Pesaro ha da poco superato le 40 edizioni e quello verdiano a Parma arriverà quest’autunno alla numero 23. Il più antico (l’anno prossimo – nel centenario della morte del musicista – taglierà il traguardo della settantesima edizione), tuttavia lontano dal prestigio e dalla notorietà dei confratelli.
Quest’anno, poi, problemi e polemiche sono stati particolarmente virulenti e per molti aspetti grotteschi. Qualcuno potrebbe osservare che tutto serve per attirare l’attenzione, per fare marketing, come suole dirsi. Ma è lecito dubitare che sceneggiate come quella attuata venerdì dal direttore d’orchestra Alberto Veronesi durante la serata inaugurale del festival con La bohème, facciano qualcosa per il botteghino oltre che fare – senza dubbio – notizia. La 58enne bacchetta milanese – una carriera mai arrivata ai livelli della unanimemente riconosciuta eccellenza, con una lunga e spesso discussa presenza proprio a Torre del Lago – ha in pratica accolto un assist preparato qualche giorno prima dal sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi. L’esponente del governo – in sede di lancio del festival – aveva infatti sparato ad alzo zero in maniera preventiva sullo spettacolo firmato da Christophe Gayral, regista francese con un curriculum significativo all’Opéra du Rhin a Strasburgo, mai prima alle prese con Puccini. Sgarbi, con una mossa senza precedenti – una vera e propria invasione di campo della politica – aveva aspramente criticato e preventivamente bocciato lo spettacolo di Gayral, in quanto ambientato a Parigi allo sbocciare del Maggio, tra 1967 e 1968, fra pugni chiusi e manifesti del Che. Secondo il sottosegretario, un’ambientazione inaccettabile, tale da “tradire” Puccini. Gayral aveva rimandato al mittente la contestazione in nome della libertà dell’arte, il responsabile musicale dello spettacolo si è invece schierato con il governo. E per farlo, invece di scegliere – e sarebbe stato legittimo – di abbandonare la produzione, a sorpresa si è presentato sul podio e ha diretto con una benda nera sugli occhi, “per non vedere quelle orribili scene”. Una vera e propria piazzata che ha irritato il pubblico. Numerose le contestazioni, pesanti gli insulti. Ventiquattr’ore dopo il festival gli ha dato il benservito. Scomposta e quasi incredibile la replica. Ricevuta una lettera in cui il festival lo solleva dall’incarico per le tre restanti repliche dello spettacolo, in interviste e dichiarazioni il direttore d’orchestra ha chiesto al ministero se sia giusto finanziare «arte strumentalizzata nel nome della propaganda politica» e ha concluso così: «Il pensiero unico di sinistra, sconfitto dalla storia e dalle elezioni, riemerge in forma coatta sotto forma di una regia lirica». Preannunciati gli immancabili ricorsi al Tar.
Con tutta evidenza, né Sgarbi né Veronesi (il che è ancora più grave, trattandosi di un addetto ai lavori) hanno mostrato di riconoscere quello che è successo dal punto di vista rappresentativo negli ultimi decenni non soltanto a proposito della Bohème, ma in generale per quanto riguarda il teatro musicale, che finalmente, grazie alla nuova regia, sta archiviando modi rappresentativi frusti e antiquati, tali da minare, in nome di una ottusa fedeltà ai libretti, la ricezione del melodramma da parte del pubblico contemporaneo. In quella che ormai è una polemica pseudoculturale di retroguardia, insomma, politico e direttore hanno deciso di schierarsi con la retroguardia. Che sempre invoca in casi del genere il presunto “tradimento” di Puccini, o di Verdi, o di qualsiasi autore, dilagando sui social network.
Non abbiamo visto lo spettacolo di Gayral. Non sappiamo quindi se è riuscito o meno, ma sappiamo per lunga esperienza che l’esito prescinde dagli aspetti illustrativi della vicenda. Conta l’interpretazione, della quale nei casi migliori ciò che si vede è l’efficace funzione. Per questo, demonizzare un‘ambientazione diversa da quella indicata nel libretto, postulando preventivamente che ciò sancisca il fallimento dell’allestimento, dimostra una ristrettezza di vedute desolante. Vedi caso, uno degli spettacoli più ammirati ed esaltati dell’ultimo decennio in Italia è La bohème ambientata fra giovani delle periferie degradate dei nostri giorni, firmata nel 2018 dal compianto regista Graham Vick (https://www.lesalonmusical.it/vick-lantiretorica-allopera) al Comunale di Bologna, allestimento che ha ottenuto il premio Abbiati dell’Associazione nazionale dei critici musicali come migliore spettacolo della stagione. «Una lettura – diceva la motivazione – nuova e autentica, che ha restituito un tempo contemporaneo e insieme assoluto al teatro della giovinezza di Puccini».
Era “tempo contemporaneo” anche quello messo in scena allo Sferisterio di Macerata nel 1984 dal celebre, provocatorio e controverso regista cinematografico Ken Russell, in una delle sue rarissime incursioni nel melodramma. Nella sua Bohème, Mimì – in scena una ventiquattrenne Cecilia Gasdia – moriva di overdose, mentre intorno sfilava l’opulenza del consumismo, con decine di modelle in pelliccia. Le polemiche furono violente, sempre basate su un punto di partenza sbagliato, la fedeltà alla lettera e non al senso. Ma allora il teatro di regia muoveva i primi passi, o poco più. Oggi, queste posizioni appaiono drammaticamente inattuali.
E inattuale, ma anche capziosa, appare pure l’altra querelle pucciniana e toscana che aggiunge calore polemico a questa estate già abbastanza calda per conto suo. Ne è protagonista una collega di Alberto Veronesi, molto più giovane di lui, molto più visibile di lui (in virtù della sua attività di testimonial pubblicitaria e più di recente per il ruolo politico di consigliere per la musica del ministro della Cultura), ma come lui finora non protagonista di una carriera ad alto livello, né considerata dalla critica dotata di un talento pari alle iperboli che ne accompagnano le iniziative, iperboli del resto provenienti quasi esclusivamente dai suoi sostenitori politici. Pochi giorni prima della Bohème di Torre del Lago, la 33enne Beatrice Venezi – fresca di un insensato tentativo di veto nei suoi confronti di carattere politico a Nizza, mentre sarebbe stato significativo, semmai, uno stop artistico – ha diretto a Lucca il concerto inaugurale delle celebrazioni pucciniane, spiazzando e irritando gli organizzatori quando ha proposto, al momento dei bis, l’Inno a Roma. È questa una delle pagine meno felici del compositore. Non lo dice chi scrive, ma lo stesso autore: nella primavera del 1919, quando ci stava lavorando su commissione del sindaco di Roma, Puccini definiva questo lavoro “una bella porcheria” in una lettera alla moglie Elvira, e “disgraziato Inno” in uno scambio epistolare con il musicologo Domenico Alaleona. Se ne potrebbe dedurre che non sarebbe stato granché contento di sentire eseguito questo pezzo nella sua Lucca, ma non è questo il punto: si tratta di una creazione pucciniana e come tale va considerata. Il punto è che quando Venezi dice che l’Inno a Roma «è un inno patriottico composto nel 1919. Continuare a leggere queste cose sotto un profilo ideologico lo trovo vetusto e superato», dice due cose giuste (la data di composizione, prima dell’avvento del fascismo, e il carattere dello spartito) e una tendenziosamente sbagliata, perché trascura l’evidenza storica. L’Inno fu infatti fatto proprio dal fascismo e inserito per volere di Mussolini nell’innario delle scuole elementari, quindi imposto a tutti i bambini italiani. Nel dopoguerra il suo ritornello (“Sole che sorgi, libero e giocondo…”) continuò la sua carriera politica come sigla dei comizi del fondatore e segretario del Msi, Giorgio Almirante. Quindi il problema non è se Puccini era fascista o meno (non lo era), ma è proprio il quasi secolare uso ideologico a senso unico di questa musica minore, sino a farne un simbolo di appartenenza politica. Venezi dice di voler cancellare questa connotazione, ma non può non sapere quanto essa sia tuttora viva e vitale. Dato che l’Inno non è affatto un gioiello nascosto da riportare alla luce, meglio sarebbe lasciarlo ai convegni musicologici o alle rarità editoriali e discografiche. In una serata con cinquemila spettatori, come quella di Lucca, l’effetto è completamente diverso. E difficilmente esclude l’ideologia.
Cesare Galla
Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano on line Lettera43, che ringraziamo
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