Torino: al Lingotto tre eccellenze per Brahms e Beethoven

Dopo il secondo movimento del Concerto di Brahms si poteva finire lì e andare a casa soddisfatti: il sublime era stato toccato, non c’era bisogno d’altro.

Il violino di Sergey Khachatryan aveva cantato le meravigliose frasi dell’adagio con un suono puro, un legato magico, pianissimi di sogno per un canto struggentemente nostalgico. Grandissimo virtuoso, il violinista armeno non solo non esibisce esplicitamente la sua tecnica mirabile ma sembra quasi celarla dietro una lettura introversa, intima, di un’intensità sconvolgente.

Con una lentezza estenuata si può assaporare la tenerezza con cui il Brahms nel 1879 si voltava indietro a considerare un mondo perduto. Neanche il terzo movimento con la sua vivacità riesce a modificare l’atmosfera espressivamente dolente dettata dal solista all’orchestra e al direttore sommamente intelligente e umile che si adegua ai tempi e ai volumi sonori di Khachatryan il quale poi, finalmente solo, nei fuori programma richiesti a furor di pubblico plaudente concede due bis che ribadiscono il tono espressivo dominante questa prima parte della serata.

Infatti, dopo un primo lungo pezzo di Ysaÿe, autore con cui Khachatryan nel 2024 ha vinto il premio della critica discografica tedesca, il violinista di Yerevan rievoca il suo paese con uno struggente canto armeno che piange la perdita ed è sussurrato in un pianissimo appena percepibile tale da costringere il pubblico a trattenere il fiato per ascoltare un suono che seppur debolissimo ha una incredibile solidità e dove lo sguardo introspettivo dell’interprete è al massimo grado.

Il Beethoven evocato da Brahms – il suo concerto ha per modello quello anch’esso in Re maggiore op. 61 che era stato mirabilmente interpretato da Joseph Joachim, dedicatario del concerto del compositore di Amburgo –   lo ritroviamo nella seconda parte con la Settima Sinfonia in cui anche qui è il secondo movimento quello più emozionante, quel divino Allegretto in tempo ternario aperto da due accordi dolenti in la minore dei fiati che introducono un tono nuovo e misterioso che si stacca dalla atmosfera ritmica precedente.

Qui l’orchestra è in primo piano con il magnifico colore degli archi e dei legni e un direttore che prende saldamente in mano le redini della preziosa compagine. Con una scrollata dei capelli grigi, un’alzata delle spalle, le braccia spesso abbandonate lungo il corpo, Myung-Whun Chung ha una gestualità minima che però riesce a comunicare perfettamente con l’orchestra. ‘Affinità elettive’ definisce Dino Villatico quelle tra Beethoven e Brahms – gli altri due dei tre grandi B della musica dopo Bach – ma potrebbero essere anche quelle tra Chung e l’Orchestra di Santa Cecilia, tale è l’intesa fra direttore e strumentisti, quasi fossero un corpo unico.

In questa seconda parte è la felicità del suono ritmico a dominare. « Apoteosi della danza » è il definitivo giudizio che Wagner dà della composizione, capovolgendo così il giudizio negativo che i contemporanei di Beethoven avevano dato alla sua Settima, ora una delle preferite dal pubblico dei concerti, come quello del Lingotto che ha salutato il finale con grandiose ovazioni.

Renato Verga
(10 gennaio 2025)

La locandina

Direttore Myung-Whun Chung
Violino Sergey Khachatryan
Orchestra Dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Programma:
Johannes Brahms
Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 77
Ludwig van Beethoven
Sinfonia n° 7 in La maggiore op. 92

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