Trieste: il Festival dell’Operetta tra passato e futuro

Che fine ha fatto il Festival dell’operetta? È un argomento che a Trieste, capitale italiana dell’operetta, era ed è ciclicamente d’attualità. Durante la mia breve Presidenza del Circolo della Stampa di Corso Italia, se ne discusse un ormai lontano giovedì dell’aprile 2015.

“Nata negli anni Cinquanta del secolo scorso al Castello di San Giusto, dall’estate del 2008 la tradizionale rassegna estiva dedicata alla piccola lirica non è più contemplata nelle programmazioni della Fondazione Teatro Verdi” recitava il comunicato stampa che avevo redatto per la promozione del dibattito.  Le ottimistiche dichiarazioni sul ritorno del Festival più rimpianto dai triestini, del nuovo Sovrintendente Stefano Pace, installatosi al comando della Fondazione lirica giuliana nel febbraio 2015, l’avevano però riportato agli onori della cronaca.

Tanto che, come neo Presidente del Circolo della Stampa di Trieste, misi in cantiere un incontro in cui d’operetta, ma anche del ritorno degli spettacoli al Castello di San Giusto, si sarebbe discusso nel dibattito da me moderato, con la partecipazione, fra gli altri, di Giorgio Zanfagnin, imprenditore ed ex Sovrintendente del Verdi, e di Massimiliano Tonsini, all’epoca Maestro collaboratore alla Direzione Artistica dell’Accademia di Santa Cecilia in Roma e protagonista di numerose stagioni d’operetta a Trieste.

Proprio quell’estate il Piccolo Festival del Friuli Venezia Giulia riportò, con un Don Giovanni mozartiano, la lirica a San Giusto dopo un’assenza di quarantaquattro anni. Nella breve Sovrintendenza di Antonio Calenda, nell’estate 2011, a San Giusto l’operetta era fuggevolmente riapparsa con lo Strauss più nostalgico di Una notte a Venezia, direttore Alfred Eschwé, regista lo stesso Calenda, nel cast la coppia Mazzucato-Cosotti, con Giuseppe Pambieri e il tenore Marco Frusoni.

Ci sono voluti otto anni, e un nuovo Sovrintendente, il monfalconese Giuliano Polo che ha occupato il posto di Pace, trasferitosi all’Opéra de Vallonie di Liegi, affinché il Festival dell’operetta tornasse ad allietare l’estate dei triestini, complici un contributo straordinario del Comune di Trieste, per volontà dell’Assessore alla Cultura Giorgio Rossi, e con il sostegno dell’Associazione internazionale dell’Operetta.

Il titolo scelto per inaugurare il nuovo corso della piccola lirica triestina è stato, guarda caso, La Vedova allegra di Franz Léhar, lo stesso che il 29 agosto del 1950 aggiunse, in coda alla stagione lirica estiva del Verdi a San Giusto – in cartellone Otello con Vinay, Taddei e la Fortunati, direttore De Fabritiis, poi Cavalleria di Mascagni con la Caniglia e Annaloro abbinata a Il Carillon magico di Pick Mangiagalli, e Manon di Massenet con la Carosio e Di Stefano – due titoli d’operetta, entrambi d’estrazione viennese ma in versione italiana, La Vedova allegra per l’appunto, e Al Cavallino bianco di Benazsky e Stolz: dirigeva Cesare Gallino la coppia protagonista era formata, in entrambi i casi, da Marika Magiary e Pablo Civil.

L’anno successivo, e siamo nel 1951, fu la volta de Il Conte di Lussemburgo di Léhar e Il Pipistrello (Die Fledermaus) di Johann Strauss, sempre in italiano, sempre dirette da Gallino (e da Rudolf Moralt per Strauss), con Pablo Civil a duettare con l’esotica Lidia Stix, la prima Lulu in Italia al Gran Teatro La Fenice, e con l’avvento di un nuovo comico: Elvio Calderoni.

La Vedova allegra che ha inaugurato il rinato Festival dell’edizione 2023 è stata, però, rappresentata in forma di concerto, ossia rivisitando storicamente il debutto del capolavoro di Léhar a Trieste nel febbraio del 1907, quando il Teatro Filodrammatico di via degli Artisti, oggi trasformato, dopo varie peripezie, in un grande condominio residenziale per turisti austriaci, rivaleggiava con il Verdi, il Politeama Rossetti e altri palcoscenici, nell’accaparrarsi i titoli più in voga per battere una forte concorrenza.

Nel 1907 l’opera si dava in tedesco, naturalmente, giacché Trieste non era ancora italiana, ed ebbe un’esecuzione memorabile in un teatro gremito che accolse lo spettacolo e la sua protagonista, la Diva Mila Theren, con festose acclamazioni. La rappresentazione, però, fu oggetto di contestazioni e fu interrotta a furor di popolo da un gruppo d’irredentisti montenegrini offesi dal fatto che, nell’opera di Léhar, l’immaginario Stato del Pontevedro in cui si consuma l’azione fosse la versione comica del loro Paese natale. Furono gettati volantini che, in un italiano poco ortodosso si rivolgevano così al musicista viennese a capo dell’esecuzione: “Léhar! Vergogni te del lavoro che ai fatto. Tu offendi la corte della quale scende tanto amiratta Regina Elena d’Italia! Sei tu artista!”.

Potrebbe sembrare un Tweet un po’ sgrammaticato. Léhar che era alla testa dell’orchestra in buca al Filodrammatico, non fece una piega, e lo spettacolo ebbe un successo travolgente.

Travolgente è stata anche la risposta del pubblico del Festival dell’Operetta 2023, che ha apprezzato il lavoro di ricostruzione storica di Andrea Binetti e le prove recitative di Daniela Mazzucato e Gualtiero Giorgini nei personaggi storici di Mila Theren e dello stesso Léhar. Del resto, erano quindici anni che Trieste, a parte qualche sporadica riapparizione dei titoli più noti, aspettava il ritorno del Festival.

Tutto bene quel che finisce bene, allora? No, perché gli altri due titoli appena ripresentati sul palcoscenico del Teatro Verdi, – Il Paese dei campanelli di Lombardo e Ranzato nel centenario della prima rappresentazione, celebrato anche dal Festival pugliese di Martina Franca, e il capolavoro dell’operetta francese Orfeo all’inferno di Jacques Offenbach, – non sono stati in grado di riempire la sala del Teatro di Riva 3 Novembre.

Da Roma, Massimiliano Tonsini, che a Santa Cecilia si occupa di vecchio e nuovo pubblico, e sa di cosa avrebbe bisogno un Festival che ha tanto frequentato, è deluso: “Non so darmi pace per queste occasioni perse. Il Festival era una cosa unica e con il giusto lavoro potrebbe tornare a esserlo. Che non ci sia pubblico mi sorprende. Certo, dipende da tante variabili… La prima è che, forse, bisognerebbe richiamare l’interesse per quello che c’era, e poi costruirne uno nuovo. Ma non sono cose che s’improvvisano.”.

Come dire, Tonsini, lei si candida a dirigerlo?: “Per carità, ho famiglia e lavoro a Roma: ce ne faremo una ragione…”. E ancora: “Mi sono speso per ribadire che l’operetta può essere considerata a pieno diritto la multimedialità ante litteram. È un genere teatrale e musicale che, se fatto con i dovuti criteri, è di serie A. Possiede una ricchezza e una vivacità che garantiscono gioia sia a chi l’operetta la interpreta, sia a chi vi assiste in platea. E quando nel 2008 seppi del fatto che l’operetta non rientrava più nei programmi del Verdi provai un profondo dispiacere.”.

Quanto al Teatro Filodrammatico, di cui lo spettacolo inaugurale del Festival 2023 ha rievocato gli splendori, fu costruito, a inizio Ottocento, in una zona di Trieste appartenente, a un ricco mercante della comunità ebraica, Isacco Guetta. Quando, per uno sfortunato incidente, le case del fondo andarono in cenere per un incendio, il mercante decise di finanziare di propria tasca la costruzione di un teatro: un progetto a lungo meditato, che si avvalse della progettazione di Giuseppe Fontana.

“Il Teatro Filodrammatico” scriveva nel 2018 Zeno Saracino su Triesteallnews.it “si componeva di un basamento, con quattro piani e cinque portali a tutto sesto. Gli interni presentavano tutto il necessario per un teatro in grande stile: un ordine di palchi, una galleria, un loggione e una platea, quest’ultima divisa in due parti con sedici file di posti ciascuna.

L’inaugurazione, il 22 giugno del 1829, segnò un primo periodo di attività per il Filodrammatico, appaltato in un primo momento a Israel Jacha, che vi rappresentava spettacoli di marionette. I triestini preferirono, però, attori in carne e ossa ai pupazzi dello Jacha, e già nello stesso anno l’edificio passò alla Società Filarmonico-Drammatica, diretta da Francesco Hermet.

Sotto questa nuova direzione, il Teatro conobbe una larga fortuna. Frattanto, – in base alla ricostruzione di Saracino – la continua concorrenza del Teatro Grande, oggi Teatro Comunale Giuseppe Verdi, e dell’Anfiteatro Mauroner, obbligò la Società ad abbandonare nel 1839 il monopolio del Filodrammatico, che iniziò a essere aperto a spettacoli pubblici. Dopo gli anni della commedia, i decenni centrali dell’Ottocento trasformarono il Filodrammatico nel teatro per eccellenza degli spettacoli di prosa, uno dei luoghi più ambiti delle compagnie teatrali italiane e triestine. Nel 1879, il Filodrammatico fu completamente rinnovato per mantenerlo al passo con le ultime mode, grazie all’architetto Giovanni Rigetti e per la parte decorativa agli artisti Eugenio Scomparini e Giuseppe Fumis.

Il 13 settembre 1879 il Filodrammatico registrò uno straordinario successo, rappresentando il “bel lavoro del Ferrari” della compagnia drammatica Ciotti e Belli-Blanes. Dopo gli spettacoli di marionette, le commedie della Società e gli spettacoli di prosa, il Filodrammatico si apriva, a cavallo tra i due secoli, alle opere liriche. Non esisteva compositore che non fosse rappresentato al Filodrammatico: Rossini, Bellini, Ricci, Donizetti, Paisiello, Mayr, Pedrotti, Flotow, Massenet… Per confermare il successo della nuova formula, nell’autunno del 1903 il Filodrammatico rappresentò Fedora di Giordano, quattro anni prima della tanto contestata Vedova allegra. La nuova direzione del teatro richiedeva però una maggiore pompa, un maggior lusso rispetto agli spettacoli popolari degli esordi: si verificarono pertanto ulteriori operazioni di restauro, sotto la guida di Ulderico Ravallo e Mario Garlatti. Tanti gli attori di teatro, all’epoca molto noti: la Diva Eleonora Duse, l’ammaliante Sarah Bernhardt, idolo delle folle parigine, Ferruccio Busoni al pianoforte, Ruggero Ruggeri e tanti altri…

Il Filodrammatico sembrava essersi assicurato altri cinquant’anni di spettacoli, quando un’ispezione delle autorità austroungariche determinò nel 1907, la chiusura dell’impianto, giacché l’edificio era considerato non a norma con le nuove regole contro gli incendi.

L’impresario, Vittorio Ulmann, preferì abbandonare il Filodrammatico e traslocare, baracca e burattini, in un nuovo edificio, che dapprima chiamato Nuovo Filodrammatico, che diventerà poi il cinema Eden. Oggi i più lo conoscono come Cinema Ambasciatori, a metà del Viale XX Settembre, non a caso in una zona “teatrale”, testimoniata dalla presenza di numerosi teatri convertitisi in cinema e, soprattutto, per la presenza del Politeama Rossetti oggi ìpalcoscenico per il musical internazionale.

A metà della Prima Guerra Mondiale – 7 aprile 1916 -, si annunciò finalmente la ristrutturazione del Filodrammatico, su progetto dell’architetto Arnerrytsch. Il passaggio all’Italia rallentò il progetto, ma nel 1921 il Filodrammatico riapriva al pubblico, fresco di pittura grazie alle cure artistiche dell’Agostini e del decoratore Novak-Novaretti, sotto la direzione dell’Impresa Sbrizzi e Grassi.

Il Cine Teatro fu nuovamente chiuso e riaperto nel 1930 e nel 1937 e avendo superato più o meno indenne la Seconda Guerra Mondiale, conobbe un certo successo come cinema fino agli anni Settanta. Nuove difficoltà economiche spinsero allora il coraggioso proprietario della sala, Giorgio Maggiola, a proporre dal 1972 filmati di pornografia hardcore, all’epoca una novità assoluta nel panorama italiano. Un cinema a luci rosse a tutti gli effetti, insomma, che poneva Trieste, per l’ennesima volta all’avanguardia ed era molto frequentato dal pubblico maschile.

Com’è caratteristico di questi casi, le censure e i tentativi di portare in tribunale Maggiola garantirono un insperato successo al Filodrammatico, che vivacchiò fino al 1983, quando crollò parte del muro retrostante dell’edificio, impedendo di allestirne lo schermo.

La costruzione era già instabile, quando, nel 1988, mentre ancora si discuteva cosa farne, fu distrutto da un grave incendio. Seguirono nel 2006 e nel 2009, altri due incendi e infine a infliggere il colpo di grazia, nel 2012 il crollo delle poche travi del tetto rimaste. La stessa facciata era parzialmente puntellata.

L’abbandono del Filodrammatico di per sé non sorprese nessuno, era la testimonianza della sua storia tormentata e dei suoi tanti, forse troppi, restauri, succedutisi nei secoli.

Lasciava stupiti, tuttavia, la presenza di un edificio così malridotto – a tutti gli effetti un vero e proprio rudere, nel cuore della città, nascosto e allo stesso tempo in piena vista. Finché: “Un intervento unico in una posizione veramente suggestiva ha trasformato il rudere, in pieno centro, all’angolo tra la via degli Artisti e la ripida via Donota che porta al Colle di San Giusto, non è stata trasformata. assicura chi si è occupato della vendita degli appartamenti ristrutturati, ma ha restituito alla città  una delle porzioni più antiche di Trieste, a due passi dalla magnifica Piazza Unità d’Italia.

Sono nate così le Residenze Teatro Filodrammatico: il complesso si compone di tre piani in via degli Artisti 3, e quattro piani in via Donota 8. Sono residenze uniche, in una location incredibile con la possibilità di acquistare anche cantine e box auto o posti auto direttamente sotto casa. Gli appartamenti sono tutti già venduti, come i biglietti per i musical al Politeama Rossetti, ma non per le operette al Festival che sta per concludersi al Teatro Verdi, il cui futuro, a questo punto, resta incerto. Torniamo all’antico, scrivemmo qualche anno fa, citando Verdi, in un editoriale pubblicato nel marzo 2008 dal quotidiano di Trieste. E se fosse davvero tornare all’antico l’idea vincente per il rilancio?

Rino Alessi

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