Venezia: Apocalissi a confronto
Gli ultimi quattro anni ci hanno insegnato come la ‘fine del mondo’, vera o presunta, annunciata o inaspettata che sia, possa avvenire in diversi modi. Il termine d’altra parte non ha nessuna venatura originale di distruzione, trattandosi, come era d’uso ai tempi dei greci, di una metafora. Apocalisse vuol dire ‘alzare il velo’ e dunque scoprire cosa si nasconda sotto di esso. Un atto sicuramente molto individuale nella rivelazione e che ci apre al concetto che ogni apocalisse sia in fin dei conti personale.
Non stupisca dunque se anche i compositori, a modo loro, abbiano dato una propria visione dell’apocalisse.
Certo, quando parliamo di compositori stiamo quasi esclusivamente parlando di quelli della musica colta classica occidentale, riducendo già di molto le singole voci storiche a riguardo e soprattutto, volenti o nolenti, profondamente influenzate dalla visione cristiana, apocalisse questa fatta sì, di distruzione e morte.
Nel giro di pochi giorni, nella stagione ormai a pieno ritmo della Fondazione Teatro La Fenice (qui la recensione del primo concerto del 2024), queste apocalissi personali si sono confrontate in quello che è stato a tutti gli effetti un incontro fra visione illuminista e visione romantica.
In una sorta di continuazione con il concerto precedente, sempre per la ricorrenza del bicentenario di Bruckner, la programmazione ha proposto l’esecuzione dell’ottava sinfonia del compositore austriaco, detta ‘L’Apocalittica’ ma non dall’autore stesso.
Di difficile gestazione e messa in scena, nonostante il compositore fosse ormai relativamente affermato nel jet set musicale del periodo, non stupisce il titolo che le venne affidato, fra difficoltà a farla eseguire (con relative riscritture), direttori non interessati o costretti a riprogrammarla per la notevole difficoltà e, così per non farsi mancare un po’ di devastazione epidemiologica, un’epidemia di colera a rimandarne la prima.
La difficile riproposizione odierna è stata affidata al direttore Alpesh Chauhan al ritorno sul podio veneziano.
Come si era già proposto nell’analisi del precedente concerto, un direttore nell’approcciarsi a Bruckner ha due strade: la tradizione e l’innovazione. La grande struttura, quasi una sinfonia Mahleriana pre-Mahler, non aiuta, come non aiutò all’epoca, un’innovazione senza avere un notevole bagaglio di esperienza, un calendario prove congruo e una confidenza quasi fraterna con l’orchestra. Non stupisca quindi se il direttore britannico abbia preferito la prima opzione.
Una scelta efficace per la resa con l’orchestra che ha condotto lo spettatore lungo le larghe navate dell’architettura compositiva ma che forse si è allontanata dalla reale resa complessiva ‘di passione’ ipotizzata dal direttore, se si è trovato costretto a fare confluire quell’energia in ampi gesti direttoriali scenici, compresi salti sul podio in occasioni dei climax orchestrali.
A dispetto di questo, la monumentale sinfonia è trascorsa senza che il filo o l’attenzione venisse meno, portando il pubblico ad applausi convinti e prolungati.
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L’apocalisse richiamata dal Requiem di Mozart forse è fra quelle più conosciute nella nostra cultura occidentale.
Sicuramente affascinati dall’aura di mistero, in parte alimentata da letteratura e film, l’incompiutezza del genio ha fornito all’ultima composizione di Mozart carattere di eternità. E proprio per questo, come accade a tutte quella letteratura costantemente riproposta, è difficile misurarsi con decine e decine di riproposizioni.
Lo è per chi suona, nel vano tentativo di non replicare qualcosa di già sentito, ma lo è anche per chi ascolta che se hanno avuto la fortuna di sentire una o più versioni che gli hanno rivoluzionato l’idea di quel brano, farà sempre molta difficoltà a tornare al gradino precedente.
Il brano di Mozart, oltretutto, per questa caratteristica di universalità, spesso e volentieri fa concerto a sé, dato che ha già un’ampia durata (se ovviamente si considera il completamento di Süßmayr), ha una sua sacralità che mal lo vede far condividere il palco con altri brani e contemplando orchestra, cori e solisti soddisfa già i requisiti di spettacolo.
A dispetto di questo, il concerto dell’1 Marzo, affidato alla visione musicale di Ivor Bolton, ha sostanzialmente rotto gli schemi, portando nel primo tempo del concerto l’ouverture dall’opera ‘Lodoïska’ e la sinfonia n.95 di Haydn.
Se da una parte è bene che questo repertorio, ingiustamente ignorato dallo strapotere sinfonico romantico, torni in auge nei calendari musicali, forse non è stata questa l’occasione giusta per portarlo: troppa l’attenzione e troppa l’attesa per Mozart nel secondo tempo.
Va anche detto che il repertorio classico ormai ha subito negli ultimi trent’anni una ben precisa biforcazione fra l’interpretazione ‘informata’, se vogliamo vederlo come uno specchio del barocco, o un’interpretazione ‘progressista’ che parte dal bagaglio barocco e lo porta ad una visione più moderna.
Anche in questo caso il direttore ha scelto una terza via, quella dell’esecuzione a metà e su cui se su Cherubini e Haydn si poteva ancora accettarne le peculiarità, su Mozart, proprio in virtù di quell’universalità sopra citata, ne sono venuti fuori tutti i limiti.
Lo scarso coinvolgimento emotivo di orchestra e coro all’esecuzione hanno prodotto un concerto non negativo ma sicuramente non di evoluzione verso nuovi modi di leggere e intendere Mozart in primis ma anche questo repertorio.
Meglio il coinvolgimento dei solisti (il soprano Valentina Farcas, il mezzosoprano Cecilia Molinari, il tenore Mauro Peter e il basso | Milan Siljanov) che bene hanno affrontato i passaggi a loro dedicati.
Come in altri casi europei di queste settimane, qualcuno ha approfittato dell’ampia platea a disposizione per richiamare l’attenzione pubblica sulla situazione medio-orientale, con un grido a fine concerto ‘Per i morti di Gaza’.
Non è questo lo spazio per una disamina geo-politica né l’autore è in grado di dare qualche informazione in più rispetto a persone più competenti sull’argomento, ma mi si permetta un pensiero sulla ‘stranezza’ relativa al ruolo della musica. Nonostante declini e rinascite, detrattori e amanti viscerali, l’arte musicale trova sempre modo di essere al centro dell’attenzione, rischiando costantemente di essere politicizzata da chi la musica non la conosce e non la capisce, e gli ultimi anni ci hanno dato numerosi esempi in questo senso.
Mi rimarrà il dubbio su come un requiem, quindi un concetto cristiano, composto, come era uso all’epoca, con finalità di profitto, da un compositore austriaco massone di oltre due secoli fa, possa in qualche maniera essere associato ad una guerra contemporanea, fra l’altro contemplante non solo due nazioni diverse ma addirittura due religioni differenti.
Sconcerto per qualche secondo per il grido elevato e non compreso immediatamente e poi applausi reiterati ai protagonisti della serata.
Carlo Emilio Tortarolo
(23 febbraio e 1º marzo 2024)
La locandina
23 febbraio | |
Direttore | Alpesh Chauhan |
Orchestra del Teatro La Fenice | |
Programma: | |
Anton Bruckner | |
Sinfonia n.8 in do minore | |
1º marzo | |
Direttore | Ivor Bolton |
Soprano | Valentina Farcas |
Mezzosoprano | Cecilia Molinari |
Tenore | Mauro Peter |
Basso | Milan Siljanov |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Programma: | |
Luigi Cherubini | |
Ouverture da ‘Lodoïska’ | |
Franz Joseph Haydn | |
Sinfonia in do minore n.95, Hob.I:95 | |
Wolfgang Amadeus Mozart | |
Requiem in re minore per soli, coro e orchestra KV626 |
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