Venezia: il resoconto dell’81ª Mostra del Cinema 1/3

Dopo l’insolita assenza delle orde di cacciatori di star dell’anno scorso, le code all’imbarcadero e fuori dalle sale del Lido sono tornate ad essere nuovamente infinite, e il Leone di Venezia somiglia sempre di più ad una tigre del Bengala, a causa delle temperature umide e torride da foresta amazzonica. L’aria condizionata, in compenso, consente di provare un’esperienza da cella criogenica, soprattutto sui granitici sedili del Palabiennale, ma questo, ovviamente, non impedisce a migliaia di persone provenienti da ogni parte del globo di affollare la Mostra del Cinema.

Ed è proprio al Palabiennale, una delle sale più grandi (e scomode) del Lido, che abbiamo visto il primo film di quest’anno, Leopardi – il poeta dell’Infinito, di Sergio Rubini. Cominciamo bene? Purtroppo no. Leopardi, che sarà poi adattato ad una miniserie in due puntate per la tv, non è altro che l’ennesima fiction mal riuscita della RAI: il cast è abbastanza azzeccato dal punto di vista del “phisique du rol”, ma la recitazione scolastica e forzata rende le oltre 4 ore di visione interminabili, nonostante l’impegno nella ricostruzione di alcune fasi precise della vita del poeta. È forse un prodotto destinato alle scuole? Sembrerebbe di sì, dato che la prima mezz’ora potrebbe anche essere intitolata “Giacomino e la pietra filosofale”. Se è così premiamo il piccolo Sergio con un 6 per l’impegno.

Decisamente più interessante la serie in sette episodi Disclaimer di Alfonso Cuarón, che sarà distribuita da Apple TV+, che vede Cate Blanchett, impeccabile come sempre, Sasha Baron Cohen e Kevin Kline dar vita al romanzo omonimo di Renée Knight. La suspence cresce sempre di più in ogni episodio, e tiene lo spettatore incollato allo schermo, in un susseguirsi di eventi che portano a chiedersi chi sia il custode dell’orribile segreto che, in modi diversi, ha sconvolto la vita dai protagonisti. Non mancano i colpi di scena e i plot twist; Cuarón sviluppa la storia con flashback continui che aggiungono continuamente pezzi di puzzle alla trama, in una sorta di moderno e realistico Cluedo che, oltre ad intrattenere, veicola un’importante riflessione sulle convenzioni sociali prestabilite e su quello che a prescindere diamo per scontato in modo totalmente inconsapevole.

El Jockey, invece, film in concorso del regista argentino Luis Ortega ruota intorno a temi molto diversi: la reincarnazione (ebbene sì) e la transizione di genere. Il fantino Remo Manfredini è ormai alla fine della sua carriera, e ha fatto dell’autodistruzione il suo stile di vita. Sfida continuamente il boss Sirena, che cerca di riportarlo sulla retta via, finché un incidente quasi mortale non lo porta a spersonalizzarsi completamente, e a fuggire dall’ospedale vestito da donna. La rovina dell’antieroe diventa una rinascita in senso letterale, e vede l’alternarsi di momenti tragici e comici, con uno stile registico che cambia continuamente, ma forse un po’ troppo. La pellicola cattura sicuramente l’attenzione dello spettatore, ma ruba tanto a molti altri film, risultando originale ma anche un’”accozzaglia” di elementi che coesistono in modo lineare ma sembrano voler stupire per forza. Essere un bravo regista non vuol dire dover necessariamente strafare.

Maria, di Pablo Larraín, è anch’esso il racconto di una discesa dall’Olimpo. Il regista cileno abbandona lo humor grottesco di El Conde, in concorso l’anno scorso, ed accompagna Angelina Jolie come suo cavallo di battaglia in un biopic ben riuscito (come lo era stato anche Spencer). È vero, la Jolie non somiglia alla diva dell’opera Maria Callas (la sua protesi nasale non si avvicina neanche lontanamente alla caratteristica fisica che rendeva La Callas riconoscibile), ma ci regala una grande e commovente interpretazione, facendoci empatizzare e percepire l’immenso dolore di una dea nella sua più terribile e profonda fase di declino. Nota negativa per Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che nonostante vengano caratterizzati come i domestici della Callas interpretano, appunto… Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher.

In seguito una pausa dal cinema “impegnato” con Trois Amies di Emmanuel Mouret, che si cimenta in una semplice ronde alla Woody Allen: amicizia, intrecci amorosi, tradimenti. Piacevole, leggero, ma senza vero amore e vero sesso negli occhi e nei corpi dei protagonisti. Ni.

Di stampo indubbiamente più aggressivo e trasgressivo è Babygirl, un altro film in concorso della regista olandese Halina Reijn. Nicole Kidman è Romy, forte, decisa, indipendente, la madre e la donna in carriera perfetta, ma insoddisfatta nella vita sessuale con suo marito Jacob (Antonio Banderas). Troverà nel giovane e misterioso Samuel, interpretato dal talentuoso Harris Dickinson, una piacevole scoperta di questa Mostra, una valvola di sfogo per i suoi desideri più sordidi e proibiti. La Kidman punta in alto, si reiventa nuovamente in un personaggio complesso, sfaccettato, e senza dover usare le parole porta sullo schermo tutta la tensione e la frustrazione della protagonista, nel non riuscire a non desiderare di abbandonarsi alle proprie pulsioni e perversioni, in un rapporto al di là di ogni regola, in cui i limiti del potere e del controllo diventano labili e mutevoli. Un film ben scritto e sorprendente, a tratti anche ironico, in modo intelligente e mai ridicolo, che usa il sesso come pretesto per esplorare i confini di ciò che è giusto e sbagliato nella società contemporanea.

I due film documentaristici Separated e Why War ci hanno costretti, poi, a tornare con i piedi per terra, con tematiche importanti ed impegnative, ma sviluppate e presentate in maniera poco accattivante. Separated, di Errol Morris, che si basa sul libro di Jacob Soboroff, corrispondente della NBC Separated: inside an American tragedy, racconta le conseguenze della scelta dell’amministrazione Trump di separare i bambini dai loro genitori una volta superato illegalmente il famigerato confine con il Messico, ma lo fa in modo ripetitivo e pesante, alternando interviste e ricostruzioni con attori i cui volti vengono spesso nascosti per simulare verità. Anche più tedioso, se possibile, è Why War, del regista israeliano Amos Gitai, che parte da una premessa molto interessante, ovvero gli scambi epistolari tra Albert Einstein e Sigmund Freud riguardo la guerra e il suo significato. Poteva essere un’opera importante e stimolante, che avrebbe invitato il pubblico a riflettere sulla guerra e sul suo impatto sulla società, ma è un film senza ritmo, incompleto, una sorta di spettacolo teatrale fatto di eterni monologhi (soprattutto di Freud), che pare non trovare una soluzione definitiva e un senso tanto al problema della guerra quanto a sé stesso.

Leurs enfants aprés eux, dei registi francesi Zoran Boukherma e Ludovic Boukherma, è un altro dei film in concorso quest’anno. Tratto dal romanzo E i figli dopo di loro di Nicolas Mathieu, racconta la storia e la crescita emotiva di Anthony (Paul Kircher) nel corso di quattro estati, nella Francia rurale degli anni 90. Molto ben realizzato nella forma (potremmo quasi definirlo un videoclip musicale di oltre due ore), è un prodotto interessante, ad hoc, e creato per tutti i tipi di pubblico, però purtroppo scontato, fatto di sequenze potenti e suggestive, ma fin troppo cinematografiche (pistola che punta in camera, pioggia durante un abbandono) e colme di cliché. La colonna sonora è composta da brani di Bruce Springsteen, Red Hot Chili Peppers e Aerosmith… avanguardia pura.

Poche (ma buone) sorprese in questi primi tre giorni, ma fortunatamente non saranno le uniche. I giorni seguenti della Mostra del Cinema saranno ricchi di opere delle quali varrà la pena parlare.

Michele Carmone
7 settembre 2024

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