Venezia: il resoconto dell’81ª Mostra del Cinema 2/3

Campo di battaglia di Gianni Amelio è stato il primo dei quattro film italiani in concorso presentati a Venezia quest’anno. I talentuosi Alessandro Borghi (che non delude mai) e Gabriel Montesi, un attore che meriterebbe più visibilità all’interno del cinema italiano, interpretano due medici alla fine della Prima Guerra Mondiale e sono il vero punto di forza del film. L’opera si sviluppa in due parti: la prima è interessante ed efficace nel descrivere le atrocità fisiche e psicologiche sofferte dai feriti al fronte, mentre la seconda perde di ritmo e sembra lasci il film in sospeso in attesa di un momento di climax che purtroppo non arriva. L’arrivo dell’influenza cosiddetta spagnola è ciò che rivoluziona la vita di medici e soldati al “fronte”, e l’ospedale si trova ad affrontare un nemico sconosciuto ed invisibile che confonde e spaventa. Innegabile l’analogia con l’oscuro periodo che abbiamo vissuto ormai più di quattro anni fa, ma forse è la volontà di creare questa analogia che fa perdere al film di Amelio il pathos ben riuscito delle sue prime scene (di grande impatto quella iniziale nella quale un soldato cerca di recuperare materiale dai corpi accatastati dei suoi compagni e non si accorge di una mano che in mezzo ai cadaveri si tende verso di lui in cerca di aiuto).

Di pathos abbonda invece The Order, thriller poliziesco in concorso del regista australiano Justin Kurzel, basato sul saggio del 1989 The Silent Brotherhood di Kevin Flynn e Gary Gerhardt, e ispirato alla storia dell’organizzazione terroristica neo-nazista con a capo il carismatico Bob Mathews, qui interpretato da Nicholas Hoult. A dare la caccia al criminale sarà nientemeno che Jude Law nei panni dell’agente dell’FBI Terry Husk; l’attore inglese sfida sé stesso cimentandosi in un ruolo impegnativo e diverso dal solito, cambiando il suo accento (in un americano quasi, ma non del tutto, credibile) e la sua fisicità (limitandosi però ad un baffo anni 70/80 e non perdendo occasione di mostrare quanto sia ancora in forma avendo superato i 50). Un’interpretazione comunque convincente e sorprendente, come quella del bravissimo Tye Sheridan nel ruolo della sua giovane spalla, il poliziotto di provincia Jamie Bowen, sposato con una nativa americana. Sheridan intenerisce e commuove con il suo personaggio, e dimostra ancora una volta di essere uno dei giovani attori statunitensi di maggior talento degli ultimi anni. Nonostante somigli molto dalla serie di successo True Detective (alcune sequenze di dialogo in macchina tra i due poliziotti sembrano “figlie” della serie) The Order è un film ben riuscito nel suo genere, serrato e avvincente, che precede le elezioni presidenziali americane di qualche mese e sembra voler ancora una volta avvertire e persuadere la popolazione statunitense a fare la scelta più logica e sensata. Magari bastasse un film.

Una ventata di freschezza è stato il film della sezione Orizzonti del cecoslovacco Péter Kerekes Wishing on a star, che il regista per ben tre anni aveva rifiutato di realizzare, data la sua previa esperienza nel lavorare su opere documentaristiche di carattere e argomento più “serio”. Il film ci mostra la vera vita di Luciana De Leoni D’Asparedo, astrologa napoletana che vive in Friuli, e quella dei suoi clienti, persone insoddisfatte delle loro esistenze che cercano rifugio nella speranza di una nuova vita dopo la morte grazie alle congiunzioni astrali; Luciana consiglia loro la meta più adatta per il viaggio da compiere il giorno del loro compleanno, che li porterà a riflettere sui loro veri desideri e bisogni e ad affrontare il cambiamento necessario al loro nuovo inizio. Molto interessanti le scene in cui Luciana, stanca di patire le lamentele altrui, si sfoga con la figlia e mette in luce quanto l’astrologia sia in realtà connessa alla psicologia. Kerekes ci offre un film colmo di realismo ma anche di ironia, che sembra dire allo spettatore tramite lo sguardo attento e malinconico di Luciana: carpe diem, prima che sia troppo tardi.

Il film italiano Diciannove di Giovanni Tortorici è anch’esso nella categoria Orizzonti, ma è una proposta decisamente meno interessante. Un coming-of-age drama, che racconta la storia del diciannovenne Leonardo e del suo abbandonare l’età dell’innocenza per la dura realtà della vita da studente fuori sede. Tortorici dirige attori esordienti e attinge un po’ da varie fonti per far vedere che ha preso 30 all’esame di Storia del Cinema: non mancano i riferimenti a Fellini, a Pasolini e addirittura a Kubrick, in una sceneggiatura confusa e poco lineare, che da tanti spunti ma che poi non porta ad un vero finale e ad una risoluzione delle vicende narrate.

Wolfs – Lupi Solitari, di Jon Watts, tra i Fuori Concorso, è stato, invece, una piacevole sorpresa. Il duo George Clooney e Brad Pitt sono diretti dal regista degli ultimi Spider-Man della Marvel in un’action comedy classica, divertente, che unisce il thriller, il noir, l’action, ma che allo stesso tempo non ha troppe pretese, se non quella di divertire. Clooney e Pitt interpretano due “risolutori di problemi”, come il Wolf di Pulp Fiction (Harvey Keitel), che si trovano a dover collaborare per forza per evitare uno scandalo che coinvolge una donna di potere e improvvisato gigolò che risulterà essere poi la loro spalla comica. I due “fixer” battibeccano per tutto il film su chi sia il miglior risolutore, ma sono, in pratica, lo stesso personaggio, il duro uomo vissuto che si rivela essere, in realtà, un tenerone. Il film si regge quasi interamente sulla bravura e la complicità tra i due attori, che si autocelebrano e ironizzano sull’invecchiare, e vengono sapientemente ben orchestrati da Watts, regalandoci un film realizzato tecnicamente in maniera impeccabile e allo stesso tempo semplice e leggero, perché è anche di questo che ha bisogno il cinema.

I due cortometraggi Phantom, di Gabriele Manzoni, e Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, sono stati presentati al Lido per la Settimana Internazionale della Critica. Il primo può essere definito un acerbo esercizio stilistico, che nonostante l’impegno dei giovani attori, non convince soprattutto per il finale fin troppo aperto. Il secondo, invece, è molto interessate per le tematiche affrontate e in quanto presenta una corrispondenza con il film neorealista di Vittorio De Sica Ladri di biciclette, che è stato fonte di ispirazione per il regista iraniano, come ha detto lui stesso nel Q&A dopo la proiezione. Il film analizza il mondo dei rider, una professione emergente che rappresenta un esempio di lavoro precario e senza diritti. La storia di Issa, che inizia a lavorare come rider dopo essere stato licenziato dal suo precedente lavoro al mercato, mostra come questa professione possa essere una via di salvezza per gli immigrati, ma anche come sia esposta a rischi e violenze di ogni tipo. Il film si propone come uno strumento di riflessione sociale, che mette in luce le vulnerabilità e le difficoltà che gli immigrati clandestini incontrano in Italia, ed è non solo un racconto di una storia individuale, ma anche una critica alla società italiana che non offre risposte ai problemi di marginalità e precarietà.

Uno dei grandi protagonisti di quest’anno è stato senza dubbio Pedro Almodóvar, in concorso con The room next door – La stanza accanto, il suo primo lungometraggio in lingua inglese, e le due attrici protagoniste della pellicola, Tilda Swinton, nei panni di una ex reporter di guerra malata di cancro che vuole andare incontro alla morte volontariamente per non soffrire, e Julianne Moore, che interpreta una sua amica scrittrice terrorizzata dalla morte e che deve assisterla in questo delicato e decisivo momento. Nonostante tematiche importanti e non facili da trattare, come l’eutanasia e il dolore della malattia, Almodóvar riesce a costruire uno dei suoi film più intensi e toccanti, ma allo tempo per nulla melodrammatico; un film che parla di morte e che è in qualche modo un invito a prendere consapevolezza del tempo che passa, ma che è anche una celebrazione della vita e delle emozioni che ogni piccola cosa può offrire, come un semplice riflesso rosa sui fiocchi di neve al tramonto. La suggestiva ambientazione della casa nel bosco, scelta dalla protagonista per vivere i suoi ultimi giorni, e la costruzione delle scene all’insegna dell’armonia delle forme e dei colori (bellissima la ricostruzione di alcuni quadri di Edward Hopper, come Gente al sole) rendono la vicenda delle due donne una sorta di nostalgica favola moderna. Martha (Tilda Swinton) diventa sempre di più una creatura eterea, colma d’amore per la bellezza, ottimismo, voglia di affrontare a testa alta ciò che verrà con il libero arbitrio di poter scegliere quello che sente essere la cosa migliore per sé stessa (Almodóvar stesso ha affermato di essere totalmente a favore dell’eutanasia), mentre Ingrid (Julianne Moore), inizialmente spaventata dal difficile compito, affronta un percorso di crescita interiore, che la porta a conoscere e comprendere sempre di più Martha, il suo modo di vedere ed affrontare la situazione estrema che è costretta a vivere ed il perché della sua scelta. Simpatica parentesi comica con il cameo del “nostro” Alvise Rigo nei panni del personal trainer di Julianne Moore, un po’ sprecato John Turturro.

Il secondo film italiano in concorso ad essere proiettato nella Sala Grande è stato Vermiglio di Maura Delpero. La regista ha dichiarato che l’ispirazione per questo suo secondo lungometraggio è arrivata da un sogno nel quale il padre le è apparso sotto forma di un bambino di sei anni. Ne è nato un film nostalgico ed evocativo, ambientato in un paese del Trentino nel 1944, i cui abitanti vivono la loro quotidianità in un pacifico equilibrio, risparmiati dagli orrori causati dalla guerra. Vermiglio segue la vita di una famiglia composta da un severo maestro di scuola (Tommaso Ragno), da sua moglie (Roberta Rovelli) e i suoi nove figli, tra cui Lucia, una ragazza che dovrà affrontare una gravidanza e una grossa delusione d’amore e Ada, che lotterà durante la sua adolescenza con le sue pulsioni sessuali. I colori freddi predominano e conferiscono al film un’atmosfera cupa ma comunque non triste e decadente, perfettamente conforme allo stato d’animo dei personaggi, rassegnati protagonisti di un mondo che vedono trasformarsi e mutare lentamente, in modo più o meno consapevole, andando incontro ai cambiamenti di una realtà sociale che dopo la Seconda Guerra Mondiale non sarà più la stessa. Personalità diverse tra loro, ma simili, unite dal desiderio di avere una vita diversa, fuori dalle regole che soffocano e costringono, nella speranza di poter finalmente essere chi si è veramente. Un piacevole quadretto di un piccolo mondo antico che ormai non esiste più.

Interessante il film giapponese Happyend, presentato dal regista Neo Sora per la sezione Orizzonti, un film politico e visionario, ambientato in un futuro non troppo lontano, in cui gli studenti di un liceo si ribellano ad un sistema istituzionale (fatto di decine di telecamere in tutta la scuola) che li controlla in ogni momento. Happyend racconta di un’amicizia tra due ragazzi diversi tra loro per carattere ed etnia, uniti ma allo stesso tempo divisi da forze maggiori che riplasmano inevitabilmente il loro rapporto. Un film distopico, ma non troppo dark, originale per alcune scelte narrative, come quella del terremoto che pare arrivare in qualsiasi momento, riferimento alla catastrofe naturale che il 3 settembre del 1923 sconvolse Tokyo anche per il postumo insorgere del sentimento razzista verso il diverso. Le riprese si sono tenute in parte a Kōbe, una delle prime città in Giappone che si è aperta agli stranieri, mentre il regista girava anche il documentario Opus, presentato a Venezia l’anno scorso.

Sempre distopico, ma ambientato in un futuro post-apocalittico è 2073, un documentario unico nel suo genere del regista inglese Asif Kapadia, che ci illustra, grazie anche a filmati d’archivio, cosa potrebbe diventare il mondo in cui viviamo se non verranno presi provvedimenti al più presto: disastri climatici, neofascismo, crollo della democrazia, ampliamento dei sistemi di sorveglianza, tutti elementi che possiamo purtroppo associare anche al nostro presente. L’attrice britannica Samantha Morton interpreta Ghost, una donna sordomuta che sopravvive nei sotterranei in una New San Francisco braccata dalle autorità e dall’IA. Il film è stato ideato dal regista in seguito ad una serie di interviste a giornalisti di tutto il mondo in seguito alla Brexit, per mettere in evidenza le problematiche di una società la cui mentalità sembra regredire più che progredire.

Si conclude qui la nostra seconda rassegna delle intense giornate della Mostra del cinema di Venezia, mentre attendiamo grandi nomi sul tappeto rosso, come Luca Guadagnino, Daniel Craig, Lady Gaga e Joaquin Phoenix.

Michele Carmone
9 settembre 2024

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