Venezia: le fascinazioni di Apollo et Hyacinthus

Un’antica recita scolastica a sfondo mitologico. Un Intermezzo in tre atti da inserire nelle pause di una più ampia rappresentazione teatrale, che risale a oltre 250 anni fa e permette di scoprire come poco dopo la metà del Settecento venisse realizzata l’attività di spettacolo destinata a un’istituzione formativa, con protagonisti – almeno in larga parte – gli studenti.

Da un punto di vista contenutistico, la non banale drammaturgia dell’operina in questione fa riferimento al grande serbatoio di storie delle ovidiane Metamorfosi, non senza gli adattamenti “morali” necessari al contesto. La serietà delle intenzioni è testimoniata, oltre al resto, anche dall’utilizzo della lingua latina.

Basterebbero questi aspetti storici e di relazione fra il mondo della musica e del canto e quello delle scuole, per fare di Apollo et Hyacinthus una peculiare testimonianza di come l’opera fosse ormai pervasiva anche in ambiti almeno teoricamente da essa lontani, come l’Università Benedettina di Salisburgo, dove questo lavoro vide la luce il 13 maggio 1767.

Ma la testimonianza sarebbe rimasta con ogni probabilità relegata all’ambito documentario se la partitura in questione non fosse uno dei primissimi confronti del bambino Mozart – allora undicenne – con il genere teatrale, quello cioè che rimase sempre il suo punto di riferimento creativo più amato e perseguito.

Non si vuole dire, con questo, che l’Intermezzo di cui si parla sia mai arrivato neanche nelle zone periferiche del cosiddetto repertorio. Apollo et Hyacinthus rimane una rarità e a maggior ragione bisogna salutare positivamente il suo ritorno sulle scene del teatro Malibran, per la stagione della Fenice,  a 38 anni dalla sua ultima e unica apparizione veneziana, che risale alla fine di giugno del 1984. Il debutto assoluto in Italia era avvenuto pochi giorni prima all’Olimpico di Vicenza, nell’ambito del festival mozartiano diretto da Italo Gomez.

Sta di fatto, però, che allora come oggi quest’operina si è rivelata un gioiello che meriterebbe una maggiore frequenza sui nostri palcoscenici. Si tratta di una sorta di miracolosa sintesi di opera seria all’italiana in tre atti, nella quale peraltro oltre a cinque Arie trovano spazio anche due Duetti, un Terzetto e un Coro. Proporzionalmente, la presenza di questi numeri d’insieme è significativa di una sorta di nascente “vocazione” mozartiana allo sviluppo drammaturgico nel confronto fra personaggi. È noto infatti che in un’opera metastasiana tali confronti sono generalmente sporadici.

Un merito “pedagogico” nell’assecondare questa vocazione va riconosciuto all’autore del libretto, il monaco e docente Rufinus Widl, evidentemente elastico abbastanza per non fermarsi alle convenzioni formali e strutturali più diffuse.

Non per caso, dunque, la partitura ha il suo culmine all’inizio del terzo atto in due pagine a due voci. La prima è lo straordinario recitativo accompagnato – il “debutto” di Mozart in quest’ambito – durante il quale Giacinto svela al padre Ebalo, fra le cui braccia sta per morire, che non è stato Apollo a ferirlo involontariamente con il disco che aveva lanciato, ma l’amico Zefiro, che sulla questione poche scene prima aveva spudoratamente mentito, accusando il dio. La seconda è il Duetto fra Ebalo e la figlia Melia, una pagina notevole per la profondità con cui il dolore e una già molto mozartiana rassegnazione  si incrociano con risultati espressivi sorprendenti.

Questo non toglie che gli altri numeri chiusi dell’Intermezzo siano una piccola e ben assortita vetrina di settecenteschi “affetti”, delineati con una scrittura vocale evidentemente consapevole della dominante scuola italiana per l’articolazione della coloratura e dei dispositivi virtuosistici richiesti agli interpreti. Il tutto rende chiaro quanto l’opera fosse fin dalla tenera età negli orizzonti creativi di Mozart, peraltro con ragionevole gradualità, come Carlo Vitali bene illustra nel saggio al centro del programma di sala, come sempre documentatissimo.

Al Malibran l’esecuzione è stata affidata ad Andrea Marchiol, giovane direttore efficace nel delineare – alla testa dell’orchestra della Fenice – la franca chiarezza del linguaggio mozartiano – laddove la poetica degli affetti lo richiede – ma anche accorto nel piegare il fraseggio, le dinamiche e i colori alla riflessione patetica, nelle pagine cruciali della partitura. La compagnia di canto si è fatta apprezzare per l’ottima disposizione all’agilità e per la consapevolezza stilistica. Il soprano Barbara Massaro ha dato a Melia, sorella di Giacinto, la brillantezza svettante ma anche l’intensa espressività dolente necessarie a un personaggio che passa dalla gioia al dolore prima del lieto fine di prammatica. Impeccabile il controtenore Raffaele Pe nella non troppo ampia parte di Apollo, delineata con regale eleganza e accenti di effettiva vicinanza nei complicati rapporti del nume con il genere umano. Positivi per colore ed equilibrio anche Kangmin Justin Kim, lo sfortunato Giacinto, che il dio affranto trasformerà nel fiore omonimo, e Danilo Pastore, Zefiro, che a sua volta in questa metamorfica vicenda mitologica finirà per essere trasformato nell’omonimo vento. Completava il cast, nei panni di un Ebalo dalla presenza scenica e vocale di raccolta intensità, il tenore Krystian Adam.

Realizzato (come in fondo postulavano le origini di questa operina) in collaborazione con un’istituzione formativa di primaria importanza come l’Accademia di Belle Arti di Venezia, i cui allievi hanno lavorato a scene, costumi e light design, lo spettacolo è stato firmato per la regia da Cecilia Ligorio. Lettura convincente, la sua, per la spigliata leggerezza e per la capacità di riflettere sulla tradizione mitologica e sul tema della metamorfosi, delineando un immaginario inserito nella contemporaneità ma sostanzialmente senza tempo. Con questo obiettivo, anche gli allievi dell’Accademia sono stati portati in scena come figuranti nel ruolo di se stessi: senza colpi di teatro a effetto, la soluzione ha reso comunque evidente l’universalità delle antiche storie su cui si basa l’operina. Si è così passati – con fluidi cambi di scena a vista – dalla classicità astratta del primo atto alla “modernità” del secondo, durante il quale il sembiante scultoreo di Apollo, che rimanda al personaggio sulla scena, è un graffito fra murales e altre “prove di pittura”, e infine alla spoglia essenzialità del terzo atto, giocato tuttavia con luci assai suggestive.

Alla prova generale, cui abbiamo assistito, consensi di vivo apprezzamento per tutti i protagonisti dello spettacolo.

Cesare Galla
(5 ottobre 2022)

La locandina

Direttore Andrea Marchiol
Regia Cecilia Ligorio
Scene, costumi e luci Accademia di Belle Arti di Venezia
Personaggi e interpreti:
Oebalus Krystian Adam
Melia Barbara Massaro
Hyacinthus Kangmin Justin Kim
Apollo Raffaele Pe
Zephyrus Danilo Pastore
Duo sacrificuli Apollinis Enzo Borghetti, Emanuele Pedrini
Orchestra del Teatro La Fenice

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