Venezia: lo Scipione di Mozart bambino, un Sogno tra classico e moderno
Per quanto Metastasio, autore del libretto, lo definisca “azione teatrale”, Il sogno di Scipione ha l’aspetto di una vasta Cantata: una collana di dieci Arie nello stile e nella forma dell’opera seria italiana, con un breve coro verso la metà e uno alla fine. Tuttavia, nonostante il carattere sentenzioso ma soprattutto encomiastico a cui il poeta piega abilmente la fonte ciceroniana (dal dialogo sulle forme e sugli scopi del governo nel De Republica si passa all’esaltazione delle virtù del principe di turno, in prima istanza l’imperatore Carlo VI d’Asburgo per il suo cinquantesimo compleanno, nel 1735), lungo questi versi qualcosa accade. Scipione si trova a un bivio e a renderlo drammatico ci pensano soprattutto i due principali “personaggi” femminili, Costanza e Fortuna, che cercano di accaparrarsi il suo favore. Il che significa anche una scelta morale e di vita ovviamente scontata, ma quanto meno incerta fino alla fine. Non senza un accesso di rabbia da parte di Fortuna, una volta che la scelta è caduta su Costanza.
Se poi il libretto viene rivestito di note da un Mozart quindicenne “imbevuto” di stile melodrammatico italiano, le suggestioni drammaturgiche si fanno pressanti. Del resto per il salisburghese era quello il periodo più fervido della sua formazione operistica. La composizione del Sogno dovette avvenire nel 1771, fra il primo e il secondo viaggio nella Penisola; la prima esecuzione nella primavera del 1772: i mesi del Mitridate, di Ascanio in Alba, del Lucio Silla. Destinatario ne fu l’arcivescovo di Salisburgo, anche se non Sigismund Schrattenbach, dal quale probabilmente giunse la commissione, ma il suo successore Hyeronymus Colloredo, essendo il predecessore passato a miglior vita prima che si potesse realizzare l’esecuzione in suo onore.
Nella partitura mozartiana spumeggia e quasi tracima una scrittura di eleganza e nitidezza trascinanti, nella cornice di una sontuosa dimensione strumentale: uno stile brillante e personale, capace di iniziare il processo di trasformazione degli “affetti” settecenteschi in qualcosa che va oltre al dispositivo vocale fisso, arido anche se virtuosistico. Tutti elementi che conducono naturalmente questo Sogno di Scipione a una dimensione compiutamente teatrale. E infatti pochi anni dopo il primo recupero in epoca moderna di questa musica, avvenuto in forma di concerto a Salisburgo nel 1979, ne sono iniziate anche le esecuzioni in forma scenica. La prima, con ogni probabilità, è stata la rappresentazione del 1984 al Teatro Olimpico di Vicenza, con la regia di Pier’Alli: laddove il sogno classicistico di Palladio e quello musicale di Mozart dentro ai versi di Metastasio trovavano la sintesi in una sorta di aulica visionarietà, rara a incontrarsi nel più antico teatro al coperto del mondo. Anche perché quella fu probabilmente l’ultima volta in cui una struttura scenografica imponente, per quanto affascinante, potè trovare posto davanti alla “frons scenae”.
Quella lontana rappresentazione – inserita in un festival dalla vita troppo breve, intitolato “Mozart in Italia” – aveva il marchio della Fenice e del suo direttore artistico di allora, Italo Gomez. Ma a differenza di altre produzioni che in quegli anni si distribuirono sull’asse Vicenza-Venezia (dal Mitridate ad Ascanio in Alba e ad Apollo et Hyacinthus) non trovò spazio in laguna, proprio per la sua assoluta specificità. E così solo oggi, a 35 anni di distanza, Il sogno di Scipione arriva alla sua prima rappresentazione veneziana. Accade al teatro Malibran, nell’ambito di un progetto che ha coinvolto le scuole di scenografia e di costume dell’Accademia di Belle Arti, con gli studenti partecipi anche in un folto “gruppo di regia” coordinato da Elena Barbalich.
La drammaturgia scelta per questo spettacolo privilegia l’aspetto politico del discorso sul potere, rispetto a quello filosofico, e lo fa con immaginario sostanzialmente contemporaneo, sul filo di una narrazione minuziosa, che segue attentamente il testo e la musica. Il contesto è anche fantastico e surreale, come si conviene a un sogno, ma se si apprezza la positiva attenzione con cui viene delineata la recitazione, specialmente all’interno delle Arie, talvolta si apprezza meno l’estemporaneità di soluzioni anche ingenuamente sopra le righe.
Come quella di uno Scipione che mentre l’Africano maggiore canta la grande Aria “Se vuoi che te raccolgano” (musicalmente forse il cuore dell’intera partitura, per forza espressiva dentro alla vocalità e per ricchezza nell’accompagnamento orchestrale) se ne va in giro con una pistola minacciando gli spiriti magni che affollano la scena e alla fine spara e abbatte il suo avo adottivo. In ogni caso, al netto di qualche intermittente assottigliarsi della chiarezza narrativa, lo spettacolo sostanzialmente tiene e si vale dell’entusiasmo di ventisette studenti dell’Accademia, apprezzabilmente impegnati come mimi e figuranti, delle scene di Francesco Cocco, ricche di citazioni tra il fantascientifico e il cinematografico, dei costumi di Davide Tonolli fra il classicistico e il moderno.
Sul podio è salito Federico Maria Sardelli, specialista del Settecento italiano, che ha scelto una linea interpretativa asciutta ma non arida, dal suono essenziale (con l’orchestra della Fenice in discreta forma ma non sempre precisa nelle sezioni degli ottoni), tagliato in un fraseggio duttile, dalle dinamiche varie e ricche di espressione. Stilisticamente, com’era giusto che fosse, un Mozart più vicino alla tradizione pre-classica italiana che alla sua futura evoluzione nel Classicismo maturo e profondo. La compagnia di canto si è proposta con attenzione e misura secondo questa linea, senza anacronistiche accentuazioni drammatiche. In generale, la linea di canto è risultata quindi elegante, a tratti un po’ esangue nell’emissione, sempre precisa anche se magari non trascinante nella coloratura: un belcanto controllato e con apprezzabili qualità di timbro e di legato.
Fra i tenori, in primo piano lo Scipione di Valentino Buzza, nitido e ben timbrato; Emanuele D’Aguanno ha cantato la parte dell’Africano con vigore e tenuta non costante nella sua lunga Aria, piccola maratona belcantistica; Luca Cervone ha dato accenti chiari e corposi alla parte di Emilio.
Fra le donne, svettante in agilità la Costanza di Francesca Boncompagni e capace di interessanti accentuazioni drammatiche la Fortuna di Bernarda Bobro. Brillante e facile in zona acuta Rui Hoshina nella conclusiva Aria encomiastica della Licenza. Preciso il coro istruito da Claudio Marino Moretti.
Teatro Malibran al completo, applausi dopo ogni Aria, alla fine accoglienze calorose per tutti i protagonisti dello spettacolo.
Cesare Galla
(8 febbraio 2019)
La locandina
Direttore | Federico Maria Sardelli |
Regia | Elena Barbalich |
Scene e Costumi | Scuola di scenografia e costume dell’Accademia di Belle Arti di Venezia |
Scene | Francesco Cocco |
Costumi | Davide Tonolli |
Personaggi e interpreti: | |
Scipione | Giuseppe Valentino Buzza |
Costanza | Francesca Boncompagni |
Fortuna | Bernarda Bobro |
Publio | Emanuele D’Aguanno |
Emilio | Luca Cervoni |
Licenza | Rui Hoshina |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
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