Verdi, il Grand-Opéra e i Vêpres siciliennes

Grande apertura di stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Per il suo debutto da direttore musicale, Daniele Gatti  ha scelto  Les Vêpres siciliennes  di Giuseppe Verdi, un’opera che mancava a Roma da ventidue anni e che fu composta a Parigi nel 1855, secondo i canoni del Grand Opéra. E ha scelto di riproporla nella versione integrale  francese, su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, in cinque atti, con  cori, divertissiments, un  balletto di trenta minuti, effetti scenografici e grandi masse in scena. Uno sforzo imponente e al tempo stesso una sfida degna delle ambizioni di un teatro che dopo aver ritrovato il suo lustro e  annuncia una stagione promettente, con titoli coraggiosi come la Turandot  di Puccini nel nuovo allestimento del cinese Ai Wai Wei, e molto spazioper classici. Dopo i Vespri, Gatti dirigerà   Capuleti e Montecchi di Vincenzo Bellini, il capolavoro del belcanto con cui esordì a ventisette anni  come direttore principale  ospite al Teatro comunale di Bologna.  Poi sarà la volta di The Rake’s Progres, omaggio all’Italia col suo recitativo secco e lo stesso organico del Così fan tutti, e apoteosi del neoclassicismo di  Igor Stravinski, che ha già diretto due volte a Bologna e Santa Cecilia in versione semiscenica. Infine, dopo due concerti con l’Oedipus Rex dello stesso Stravinski, il maestro Gatti dirigerà La Clemenza di Tito, l’opera più aulica di Mozart, con cui aprirà la stagione 2020-21.

Ma intanto per  inaugurare il 2019-20 con i Vêpres, il Costanzi sotto la guida  del sovrintendente Carlo Fuortes e del direttore artistico Alessio Vlad, ha mobilitato tutte le sue risorse interne: dall’orchestra, portata da Gatti a un livello smagliante al coro di Roberto Gabbiani,  dal corpo di ballo diretto da Eleonora Abbagnano, compresi i giovanissimi allievi della scuola di ballo, impegnati a più riprese in coreografie sorprendenti, ai mimi, alle comparse a tutte le maestranze, senza dimenticare gli allievi di “Fabrica”, il programma per giovani artisti dal quale è uscita il soprano Roberta Mantegna, siciliana trentaduenne, reclutata per il ruolo di Hélène dopo il successo alla Scala nel Pirata di Bellini. Davvero una bella sfida per un  teatro  tornato ai fasti di un tempo che si pensava perduto e considerato oggi uno dei più stimolanti d’Italia, grazie a una  programmazione piena di fantasia, e alla costante valorizzazione  delle sue risorse. Si spiega così il crescente favore del pubblico che oggi  premia il Teatro dell’Opera di Roma. Negli ultimi quattro anni, infatti, i ricavi del teatro sono raddoppiati, sino a raggiungere i 15 milioni di incassi dalla biglietteria,  e  senza nemmeno aumentare il prezzo del biglietto, che rispetto agli altri teatri lirici italiani e stranieri resta contenuto, e ha permesso di arrivare a un autofinanziamento del 36 per cento.

Anche un titolo complesso come i Vêpres,   è facile prevederlo,  avrà un largo seguito. Gli ingredienti non mancano. Innanzitutto c’è la direzione di Gatti, analitica, precisa, rigorosa, attenta a riscoprire un Verdi forse  meno noto di quello della Trilogia popolare,  ma altrettanto possente, e a liberarlo  dai vincoli dell’impalcatura francese. Poi la compagnia di cantanti, tutti di grande spessore, scelta ad hoc per assecondare questa interpretazione. Infine la regia di una donna, Valentina Carrasco, l’argentina cosmopolita della Fura dels Baus, che muovendosi dentro le scenografie di Richard Peduzzi, è riuscita a trovare soluzioni sorprendenti per aggirare una delle apparenti incongruenza, come il balletto che segue al terzo atto  il duetto straziante tra un padre che s’ignora e un figlio che lo rifiuta, e cioè il governatore francese Monfort e il ribelle siciliano Henri, per risolverlo con un coup de théâtre nella coreografia di un sogno odi  un rimorso di coscienza individuale, che poi diventa il  racconto di una sopraffazione e il lavacro di una purificazione collettiva.

Per quanto astratta e indeterminata, con costumi senza tempo (divise militari, abiti al ginocchio, blue jeans), la scena infatti è ambientata nella Sicilia medievale ai tempi della conquista angioina e della rivolta antifrancese.    Verdi, all’inizio, per quella commissione dal Teatro imperiale dell’Opera di Parigi, in realtà, non pensava   alla Sicilia. Aveva in mente Napoli, ma cambiò idea quando   il librettista, gli spiegò che rischiava di essere la stessa ambientazione della  Muette de Portici di Daniel Auber, che  spopolava. Così, dopo avergli bocciato due soggetti, il primo, Les Circassiens, già rifilato a Giacomo Meyerbeer, il secondo, Wlaska, ou Les Amazones de Bohème, perché , gli spiegò, “le donne soldato   mi hanno sempre fatto una strana impressione” Verdi sìaccordò con Scribe per riadattare Le Duc d’Albe, libretto scritto nel 1838 per Halévy e riciclato per Donizetti che però l’aveva lasciato incompiuto. Voleva “un soggetto grandioso, appassionato, originale: di una messa in scena imponente, abbagliante”, e   Scribe, il più prolifico degli autori del tempo, noto per essere anche un faccendiere e un cinico mestierante lo  accontentò. Spostò la scena dalle Fiandre alla Sicilia, dal Cinquecento al Medioevo, cambiò i nomi, liquidò  il maestro birraio, al posto suo mise un medico,  tornato dall’esilio per fare il cospiratore capo e “invece dei fiamminghi che vogliono e non possono massacrare gli Spagnoli” mise “i siciliani, furiosi, oltraggiati e vendicativi, pronti a massacrare i francesi”.

Fu così che alla vigilia dell’Unità d’Italia, complice l’intesa tra Cavour e Napoleone III, venne fuori il drammone  dei Vêpres in cui si respira il patriottismo avito di una terra invasa, conquistata e occupata dagli stranieri, ma esposta a un dilemma inesorabile: da un lato  la passione dei dominati, con due innamorati pronti alla rivolta, ma in preda alla vendetta, alla gelosia, al tradimento, al disonore. Dall’altro lato  la fragilità dei dominatori, col viceré di Carlo d’Angiò, Guy de Monfort che pur di essere riconosciuto come padre di quel figlio, siciliano e ribelle, è pronto a rinunciare al potere, anche se in questo finirà per causarne la disgrazia e la sua stessa fine.

Marina Valensise

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