Verona: funziona il dittico Schicchi-Maestro di cappella

Posto che il Trittico di Giacomo Puccini – nella sua interezza – appartiene a una consuetudine rappresentativa tramontata da tempo, il suo “spacchettamento” consente soluzioni diversificate, talvolta curiose e originali. Al Filarmonico di Verona, ad esempio, l’ultimo spettacolo della stagione lirica aveva il suo piatto forte in Gianni Schicchi, preceduto con scelta probabilmente inedita da Il maestro di cappella.

Come dire, l’ultimo capolavoro “compiuto” del compositore lucchese (1918; dopo sarebbero arrivati gli anni tormentati di Turandot) e quella piccola, curiosa quanto brillante pagina, probabilmente apocrifa almeno per metà, che una consolidata tradizione esecutiva attribuisce integralmente a Domenico Cimarosa.

Si potrebbe pensare che il punto di contatto sia più che altro la comune appartenenza dei due titoli al genere comico, ma non è semplicemente così. Con la positiva complicità della regia per Puccini, infatti, emerge anche un’altra prospettiva piuttosto intrigante.

Se Il maestro di cappella è un tipico esempio di metateatro, ovvero di opera che racconta se stessa e si mette lucidamente e consapevolmente in ridicolo, nella lettura di Vittorio Borrelli (nata al Regio di Torino e ripresa a Verona da Matteo Anselmi) Gianni Schicchi diventa un dispositivo melodrammaturgico nel quale il comico è innescato – in prima istanza – dal fatto che il pubblico riconosce l’attualità dei deteriori comportamenti umani che vi sono rappresentati. In un gioco di rispecchiamento diverso ma non meno significativo di quello che avviene in Cimarosa.

Là l’opera settecentesca svela se stessa e le sue contraddizioni, qui si  vede rappresentata in chiave caricaturale una società che non è poi così improbabile o lontana dalla nostra.

Questo avviene grazie allo spostamento dell’epoca della vicenda dal 1299 della fonte dantesca (Inferno, XXX) accolta nel libretto di Giovacchino Forzano, all’epoca in cui lo Schicchi vedeva la luce o forse un poco prima, cioè all’inizio del Novecento (scene di Saverio Santoliquido e Claudia Boasso, costumi di Laura Viglione).

Fuori dal Medioevo, ciò che questo allestimento mette alla berlina, raccogliendo più di qualche  risata a scena aperta, è la grettezza di una classe agiata avida, sciocca e infine gabbata da un astuto “homo novus”. Qualcosa di plausibile all’inizio del XX secolo come pure al giorno d’oggi.

Lo spostamento cronologico, fra l’altro, serve anche a capire meglio come l’ideale accostamento di Gianni Schicchi al verdiano Falstaff – così spesso indicato dai musicologi – abbia in realtà dei limiti proprio nella natura del comico che i due capolavori delineano. Perché Schicchi non è il vanaglorioso e grottesco personaggio elisabettiano, dipinto così magistralmente da Verdi, che lo trasforma in un carattere “universale”, come in Shakespeare non era. È un furbacchione truffaldino e pieno di risorse, un personaggio di cronaca che nell’ordire il suo raggiro si rende simpatico e rende ridicole le sue vittime.

Comicità amorale, per certi aspetti. Ma poiché tutto deriva dal padre Dante, che invece di moralità era molto ben fornito, ecco che il finale dell’atto unico offre una significativa soluzione metateatrale. Schicchi si rivolge direttamente al pubblico, chiedendogli di essere magnanimo: le sue malefatte gliele ha già fatte scontare l’Alighieri e sono state compiute a fin di bene…

Come si può capire, per rendere al meglio Gianni Schicchi serve un gruppo di abili attori oltre che di cantanti eclettici e capaci di passare dal parlato all’arioso senza trascurare il canto di conversazione. Così è stato al Filarmonico, dove Alessandro Luongo è stato uno Schicchi sarcastico al punto giusto, di notevole scena e di grande duttilità espressiva, Barbara Massaro una Lauretta ben provvista della tenera semplicità che le attribuisce Puccini, riassunta nella sua celebre Aria (“O mio babbino caro”), Giovanni Sala un Rinuccio dalla linea di canto franca e ben controllata sull’acuto.

Ma per il successo complessivo è stato fondamentale anche l’apporto di tutti gli altri, capaci di sottigliezza nella caricatura scenica come nella parodia vocale cui spesso sono chiamati.

Si tratta di Rossana Rinaldi (Zita), Ugo Tarquini (Gherardo), Elisabetta Zizzo (Nella) Dario Giorgelè (Betto di Signa), Mario Luperi (Simone), Roberto Accurso (Marco), Alice Marini (la Ciesca), Maurizio Pantò (Pinellino), Nicolò Rigano (Guccio), Leonardo Vargas Aguilar (Gherardino) e Alessandro Busi nel doppio ruolo del medico Spinelloccio e del notaio Amantio.

Dirigeva e debuttava al Filarmonico, nella sua città natale, il ventiquattrenne Alessandro Bonato, che è più di una promessa del podio, visto che si è disimpegnato come un veterano, facendo suonare assai bene l’orchestra areniana e facendosi apprezzare per la brillantezza capace di venature liriche, per l’eleganza e per la chiarezza del fraseggio, che hanno chiarito quanta sofisticata sapienza Puccini sfoggi in questa partitura.

Nell’iniziale Maestro di cappella, ambientazione in perfetto stile classicistico, con gli strumentisti areniani sulla scena in costume settecentesco e parrucca dentro a un fastoso scenario dipinto, ovviamente evocativo della stessa epoca.

La regia è stata firmata da Marina Bianchi, le scene da Michele Olcese, i costumi da Silvia Bonetti: un lavoro di ricerca e recupero nei magazzini della Fondazione, come ha detto la regista nelle note pubblicate sul programma di sala, per la scelta di utilizzare materiali provenienti da “antichi allestimenti areniani”.

Nel ruolo del titolo c’era lo stesso Alessandro Luongo, spigliato e spiritoso come spigliati sono stati tutti gli orchestrali, bravi ad interagire con il cantante e con il direttore Bonato in quella che per molti aspetti è una sorta di “Prova d’orchestra” ambientata nel XVIII secolo.

Anche in questo caso, vivace successo.

Cesare Galla

(19 maggio 2019)

La locandina

Il Maestro di cappella
Direttore d’orchestra Alessandro Bonato
Regia Marina Bianchi
Scene Michele Olcese
Coordinatrice ai costumi Silvia Bonetti
Lighting design Paolo Mazzon
Personaggi e Interpreti
Il Maestro di Cappella Alessandro Luongo
Gianni Schicchi
Direttore d’orchestra Alessandro Bonato
Regia Vittorio Borrelli
Regia ripresa da Matteo Anselmi
Scene Saverio Santoliquido e Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Lighting design Paolo Mazzon
Personaggi e Interpreti
Gianni Schicchi Alessandro Luongo
Lauretta Barbara Massaro
Zita Rossana Rinaldi
Rinuccio Giovanni Sala
Gherardo Ugo Tarquini
Nella Elisabetta Zizzo
Gherardino Leonardo Vargas Aguilar
Betto di Signa Dario Giorgelè
Simone Mario Luperi
Marco Roberto Accurso
La Ciesca Alice Marini
Maestro Spinelloccio/Ser Amantio di Nicolao Alessandro Busi
Pinellino Maurizio Pantò
Guccio Nicolò Rigano
Orchestra e tecnici dell’Arena di Verona 

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