Otello e la speranza nelle stelle al Teatro Filarmonico di Verona
La “camera letale” di Desdemona, come la chiamava Arrigo Boito, è un cubo che si muove e si rigira in scena, aperto da un lato per rivelare appunto il letto della sfortunata moglie di Otello e per contenere pochi altri oggetti, fra cui una statua della Madonna, lì portata con una specie di processione durante i cori del secondo atto. Servirà al momento dell’Ave Maria al quarto, chiusura della gran scena di Desdemona, vittima sacrificale. Le pareti esterne di questo cubo sono decorate come gli sfondi della scena: mappe celesti con immagini zodiacali in stile rinascimentale (il Leone, Lo Scorpione, l’Idra, la Vergine e quando serve anche Venere) che in qualche modo evocano i caratteri dei personaggi e la fatalità degli eventi che si accaniscono su quella che solo alla fine il suo carnefice riconoscerà essere una “pia creatura nata sotto maligna stella”.
Dal punto di vista dell’immagine, Otello secondo Francesco Micheli (scene di Edoardo Sanchi, costumi di Silvia Aymonino), in questi giorni al Filarmonico di Verona dopo essere stato proposto nell’autunno 2012 alla Fenice (trattasi di coproduzione tra le due Fondazioni liriche del Veneto, ripresa da Giorgia Guerra), è improntato a una decorativa essenzialità. Lo spazio è spesso vuoto e l’idea non è peregrina. Altrettanto spesso, però, Micheli non resiste all’idea di affollarlo con figuranti in massa raramente necessaria così folta, e specialmente di affidarsi ai simboli per dare il senso di una storia che di simboli non ha particolare bisogno, vista la sua universalità. E così ecco gli oggetti – la citata statua della Madonna e i ricorrenti modellini di navigli, per mano al coro e ai figuranti, in colori diversi. E soprattutto ecco i mimi che si materializzano accanto al Moro nei momenti più accesi del suo delirio assassino, larve infernali (o qualcosa del genere) che lo trafiggono metaforicamente oppure lo tormentano, quasi Furie di classica memoria. Micheli, insomma, s’impegna a cercare di spiegare attraverso immagini dotate di un’eloquenza semplicistica quello che nella partitura di Verdi e nel libretto di Boito emerge icasticamente – e non a caso il musicista parlava di “invenzione del vero”.
Del tutto fuori dal “vero” dei due autori è peraltro la soluzione per il finale. Otello non si dispera davanti al cadavere di Desdemona strangolata, perché il suicidio avviene a proscenio ma non senza la presenza accanto al Moro della sua vittima, che prima quasi gli indica come deve fare, per sbudellarsi con il pugnale, e poi però sembra concedergli una sorta di perdono postumo. E insieme i due si allontano, apparentemente rappacificati, verso non si sa bene dove. Non certo il cielo, visto che è infestato di stelle maligne. La soluzione è sorprendente, e forse offre qualche consolazione a chi sente troppo la drammaticità inesorabile del quarto atto, ma introdurre un germe di speranza o almeno di rappacificazione in Otello significa voler andare nella direzione opposta a quella di Verdi, qui forse mai così amaro nel suo viscerale pessimismo sull’uomo e sul suo destino.
Gli annuari parlano chiaro. La penultima opera verdiana è amata e piuttosto frequentata nei paesi dell’Est europeo e in Germania, ma in Italia di fatto è ai margini del repertorio. Al Filarmonico, per dire, è tornata dopo un’assenza quasi trentennale (l’ultima volta risaliva al 1990, protagonisti Giuseppe Giacomini, Piero Cappuccilli e Maria Chiara), per la seconda volta in assoluto. E non più di cinque sono state le edizioni in Arena, a partire dal 1936: l’ultima nel 1994. Esiste una “vulgata” secondo la quale a favorire questa situazione sarebbe la difficoltà tutta italiana di trovare gli interpreti vocali adatti, primo fra tutti il tenore a cui affidare la parte del titolo. Per questa edizione veronese la scelta è caduta su uno specialista del ruolo, il lituano Kristian Benedikt, che ha cantato l’opera più di cento volte un po’ in tutto il mondo e che debuttava al Filarmonico. Il suo “Esultate” sembrava promettere molto, per forza, intensità e tenuta, ma non sempre il buongiorno si vede dal mattino. Nel prosieguo, Benedikt ha finito per proporre una linea vocale di costante forzatura, ben oltre la spinta necessaria al ruolo, che poco salvaguardava non solo il colore ma le sfumature del fraseggio, lo scavo della parola, le articolazioni dinamiche. Ed è vero che talvolta Otello grida e le sue ossessioni sono di funesta violenza, ma è anche personaggio di dolorose introspezioni e di ampi squarci lirici e sentimentali e non solo un condottiero di brutale ferocia e di espressionistica esasperazione.
Altra sottigliezza musicale e vocale ha dimostrato Vladimir Stoyanov, che ha disegnato uno Jago vicino a come lo pensavano Verdi e Boito: non un inquietante e luciferino complottista, ma un mellifluo di intrigante doppiezza, che sembra cercare il consenso di tutti mentre tesse la sua trama e solo a tratti (essenzialmente nel celebre “Credo”) lascia trasparire davvero il nero della sua anima, ma incarna per molti aspetti la cosiddetta banalità del Male. Vocalmente, la sua prova si è caratterizzata per il fraseggio duttile, anche elegante, e per il colore ben delineato, mentre la sua presenza scenica è stata sfuggente e insieme incombente, come dev’essere. Nei panni di Desdemona c’era Monica Zanettin, voce talvolta aspra ma in generale ben condotta e capace della dolcezza patetica e della disperazione che al quarto atto Verdi modella sulla parola con evidenza poetica.
Cassio ha visto debuttare positivamente il tenore turco Mert Süngü, che ha delineato il suo personaggio con sofferta e attonita partecipazione, mentre le parte di Emilia è stata resa con intensità di buona cifra drammatica da Alessia Nadin. Bene si sono espressi anche Romano Dal Zovo, basso di voce notevolmente corposa, come Ludovico, Nicolò Ceriani come Montano, Giovanni Bellavia nei panni dell’Araldo e Francesco Pittari in quelli di Roderigo. Il coro istruito da Vito Lombardi ha superato gli scogli della tumultuosa prima scena con progressiva affermazione di omogeneità e di peso espressivo, proponendosi quindi con misura e precisione. Il coro di voci bianche del secondo atto era l’A.LI.VE. guidato da Paolo Facincani e ha fatto bella figura.
Dal podio, Antonino Fogliani ha guidato l’orchestra areniana in una concertazione accurata e ricca di sfumature, troppo spinta sul piano dinamico in certe pagine concitate del primo e del terzo atto, con qualche squilibrio fra scena e orchestra, ma capace di rendere con efficacia sia la drammaticità che il lirismo e la passione, tutti elementi decisivi nell’invenzione verdiana.
Teatro gremito alla prima, accoglienze calorosissime alla fine con ripetute chiamate per tutti i protagonisti.
Cesare Galla
(4 febbraio 2018)
La locandina
Direttore d’orchestra | Antonino Fogliani |
Regia | Francesco Micheli |
Scene | Edoardo Sanchi |
Costumi | Silvia Aymonino |
Lighting designer | Fabio Barettin |
Personaggi e interpreti: | |
Otello | Kristian Benedikt |
Jago | Vladimir Stoyanov |
Desdemona | Monica Zanettin |
Cassio | mert süngü |
Rodrigo | Francesco Pittari |
Ludovico | Romano Dal Zovo |
Montano | Nicolò Ceriani |
Un araldo | Giovanni Bellavia |
Emilia | Alessia Nadin |
Maestro del Coro | Vito Lombardi |
Preparatore musicale Coro Voci Bianche A.Li.Ve. | Paolo Facincani |
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Arena di Verona |
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