Verona: Salieri e l’”altro” Falstaff
Da qualche anno, Verona celebra Mozart – quasi un cittadino onorario dopo le due settimane che vi trascorse ragazzino all’inizio del primo viaggio in Italia – con un festival ben congegnato, virtuoso nel riunire tutte le più importanti realtà musicali attive in riva all’Adige. In questi giorni, uno dei momenti clou della rassegna si svolge peraltro nel nome di Salieri. Non è una bizzarria, né tantomeno una provocazione. Posto che la fiction sul ruolo del musicista di Legnago nella morte del salisburghese, nata letteraria (Puškin) e alimentata musicalmente da Rimskij-Korsakov, non avrebbe superato i confini del secolo romantico se ottant’anni dopo l’operina del compositore russo un abile drammaturgo inglese non ci fosse tornato con una pièce teatrale, base per la popolare versione cinematografica onusta di premi del geniale Miloš Forman, il collegamento è implicito e sostanziale sul piano storico. E non riguarda solo la contiguità biografica viennese dei due compositori nell’ultimo decennio della vita di Mozart.
Inaugurando con Falstaff la propria stagione lirica al Teatro Filarmonico, Fondazione Arena ha intanto colto l’occasione per due celebrazioni anniversarie: il bicentenario della morte di Salieri (Vienna, 7 maggio 1825) e il cinquantenario di una data fondamentale nella storia della Fondazione stessa, il ritorno della sala del Bibbiena all’opera, avvenuto nel 1975 proprio con il titolo salieriano da Shakespeare, passaggio fondamentale per lo sviluppo istituzionale come ente lirico del festival areniano.
Tornando ai sostanziali collegamenti con Mozart, ascoltando quest’opera essi sono parsi chiari quanto ineludibili. Il lavoro debuttò al Teatro di Porta Carinzia (futuro luogo di fasti beethoveniani, incluso il debutto della Nona Sinfonia) il 3 gennaio 1799 e conobbe un successo di stima e una fortuna piuttosto tiepida per un autore che era ormai alla fine della sua parabola di operista con all’attivo oltre 40 opere, dal 1768 in poi. Come chiarisce il musicologo John Rice (The New Grove Opera), tre anni e 26 rappresentazioni dopo, nel 1802, il lavoro era già fuori dal repertorio dei Teatri Imperiali, nonostante le sortite a Berlino e a Dresda. Di lì a poco, nel 1804, Salieri avrebbe chiuso definitivamente la sua, peraltro, gloriosa carriera come operista, vedi caso anch’egli con un Singspiel, come il suo concorrente di Salisburgo, ma rimanendo ancora a lungo ai vertici dell’establishment musicale viennese, dominato per lunghi decenni.
L’autore del Don Giovanni era morto da poco più di sette anni, ma gli effetti del vero e proprio tsunami determinato dai suoi capolavori ultimi nei meccanismi della drammaturgia musicale, fra tradizione italiana e gusto tedesco, fra genere buffo e serio, fra riforma “alla Gluck” e nuove tendenze teatrali, attendevano ancora una vera elaborazione e un effettivo superamento. Così come le acquisizioni formali e stilistiche. Rispetto a queste ultime, evidente è l’adesione di Salieri alla teoria fatta propria da Lorenzo da Ponte, e variamente realizzata nel decennio precedente, non solo da Mozart, del Finale d’atto come “picciol dramma in sé”: un flusso di drammaturgia musicale che passa ininterrottamente dai pezzi d’insieme alle sortite dei singoli protagonisti fino al concertato conclusivo. A questo genere – e al genere di un alto artigianato, delineato con assoluta padronanza tecnica anche se con invenzione solo a tratti davvero coinvolgente, un po’ avara di seduzione melodica ma certamente non di brillantezza – appartengono entrambi i corposi Finali del Falstaff. Che offre peraltro anche altri elementi di sicuro interesse, specialmente a partire dalla metà del primo atto (quando sta maturando la prima delle tre burle al personaggio del titolo, come da sottotitolo del lavoro) e fino alla scena conclusiva nella foresta di Windsor.
Uno dei principali è la fluidità con le cui le forme chiuse (Arie, Duetti, Concertati) si adattano alle esigenze della drammaturgia, superando la logica del “numero chiuso” fino a confluire una nell’altra. Nasce da questa impostazione, frutto di notevole magistero tecnico, la caratteristica che un finissimo uomo di teatro come Gianfranco de Bosio (citato da Elena Biggi Parodi, curatrice della recentissima edizione critica secondo cui l’opera è stata presentata al Filarmonico) aveva messo in evidenza: quella di Salieri è musica che nasce sulla scena e per la scena.
Un altro elemento caratteristico è la scelta di intrecciare le modalità vocali caratteristiche dell’opera buffa con l’uso parodistico della scrittura belcantistica tipica dell’opera seria, che diviene così elemento metateatrale di sicuro interesse, così come l’adozione di una scena nella quale una delle “comari”, travestita, canta in tedesco.
Né si può ridurre a semplice elemento occasionale la scelta del soggetto, affidato al librettista Carlo Prospero Defranceschi. Le opere basate sulle shakespeariane Allegre comari di Windsor erano tutt’altro che abituali all’epoca: prima di Salieri vi si erano cimentati solo tre compositori, a partire dal 1761 a Parigi (Papavoine, Le vieux coquet) per arrivare fino al lavoro di Carl Ditters von Dittersdorf, andato in scena nel 1796.
Secondo Paolo Valerio, regista dello spettacolo al Filarmonico che firma anche i costumi, la storia di Falstaff, nel libretto definito “cavaliere attempato d’una grassezza deforme, in disordine per la cattiva condotta”, è quella di un bullo bullizzato. Una lettura ovviamente collegata alla contemporaneità (altrettanto moderna sarebbe stata peraltro la sottolineatura del ruolo a tutti gli effetti protagonistico delle due “comari”, all’insegna di una liberatoria libertà) che si riflette in uno spettacolo che si svolge in epoca indefinita ma coincidente con quella della composizione, o quasi.
Avendo sullo sfondo una Venezia un po’ fantasmatica, sfuocata, lontana dai personaggi per un ampio gioco di rispecchiamenti dei vasti pannelli che compongono e scompongono lo spazio di ciò che avviene (scene e projection design di Ezio Antonelli, luci di Claudio Schmid). Ne risulta una narrazione fluida ma distaccata, alla quale non apportano più di tanto né i movimenti mimici in stile un po’ troppo “trash televisivo” di Daniela Schiavone né il vero e proprio gioco scenico dei personaggi, ai quali giova più l’invenzione di Salieri che le soluzioni narrative dello spettacolo, per certi aspetti caratterizzate da una certa astrattezza in stile “mise en éspace”.
Alle prese con una partitura dalle multiformi quanto volute disparità stilistiche, la compagna di canto si è peraltro proposta con accorta adesione musicale e apprezzabile equilibrio. Giulio Mastrototaro è stato un Falstaff ironico e autoironico, dalla linea di canto nitida e incisiva in tutte le zone della tessitura.
Assai positiva la prova del tenore Marco Ciaponi nei panni di Mr. Ford, divorato dalla gelosia e quindi chiamato ad exploit belcantistici sostenuti con gusto impeccabile e sicura tenuta anche nei passaggi più impervi; altrettanto bene Gilda Fiume, sua moglie, il vero fulcro di tutta la vicenda: colore elegante, fraseggio disinvolto ed incisivo, una generale brillantezza a dare il senso drammaturgico dell’insieme.
Michele Patti ha dato voce al buon senso di Mr. Slender con espressività sempre misurata; Laura Verrecchia è stata una Mrs. Slender capace di delineare il caricaturale moralismo scandalizzato nella scrittura parodistica delineata da Salieri per la sua parte. Bene anche i due interpreti delle parti dei servi, Romano Dal Zovo (Bardolf) ed Eleonora Bellocci (Betty): decisivi specie nei concertati per presenza ed equilibrio.
Efficace il coro istruito da Roberto Gabbiani specialmente nella scena famosa della beffa notturna alla gran quercia nel bosco di Windsor. Dal podio, Francesco Ommassini ha tirato le fila del tutto con tratto equilibrato e gusto sicuro, grazie anche alla perspicua attenzione per l‘articolata dimensione ritmica e timbrica della partitura. Al cembalo sedeva Federico Brunello, che si è concesso – se non andiamo errati – una sola allusione mozartiana negli accompagnamenti. Inevitabile ma misurata, come suol dirsi.
Pubblico folto al Teatro Filarmonico, anche se non da tutto esaurito: diversi applausi a scena aperta, cordialissimi consensi e numerose chiamate alla fine. In sala anche il sottosegretario alla cultura con delega alla riforma delle Fondazioni liriche, il veronese Gian Marco Mazzi. Sulla riforma è calato da qualche mese il silenzio, forse anche a causa del cambio in corsa del ministro. Lo stesso silenzio che grava – oltre le chiacchiere – sul nuovo sovrintendente della Fenice: Fortunato Ortombina è già lavoro alla Scala, a Venezia pare che nessuno sia disposto a darsi fretta, anche se non c’è più tempo da perdere.
Cesare Galla
(19 gennaio 2024)
La locandina
Direttore | Francesco Ommassini |
Regia e costumi | Paolo Valerio |
Scene e projection design | Ezio Antonelli |
Luci | Claudio Schmid |
Personaggi e interpreti: | |
Sir John Falstaff | Giulio Mastrototaro |
Mrs. Ford | Gilda Fiume |
Mr. Ford | Marco Ciaponi |
Mr. Slender | Michele Patti |
Mrs. Slender | Laura Verrecchia |
Bardolf | Romano Dal Zovo |
Betty | Eleonora Bellocci |
Orchestra, Coro e Tecnici Fondazione Arena di Verona | |
Maestro del Coro | Roberto Gabbiani |
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