Verona: Una Carmen da deposito
Inaugurazione all’insegna dello status quo quella del novantaseisimo Opera Festival all’Arena di Verona. Dopo una mezz’ora “istituzionale”, con la deposizione di un mazzo di rose rosse su una poltrona di platea vuota a ricordo delle vittime di femminicidio, l’intervento della Sovrintendente Cecilia Gasdia comprensibilmente emozionata e la lettura, anche in traduzione tedesca, del messaggio del Presidente della Repubblica, si accendono le luci sulla nuova produzione di Carmen targata Hugo De Ana, che firma come di consueto regia, scene e costumi.
L’azione è trasposta nel 1930, in piena guerra civile spagnola, con Don José in veste di falangista e Carmen e compari ad ingrossare le fila dei Repubblicani; l’idea non è esattamente nuova ma comunque risulta calzante a livello drammaturgico, accentuando ulteriormente le differenze che intercorrono fra i due protagonisti, che incarnano una dicotomia sociale e di ideali che trova nella passione l’ elemento unificatore e al contempo il germe della loro distruzione.
La narrazione è “circolare”, come l’anello di sabbia della plaza de toros di Siviglia al cui interno, sulle note dell’ouverture, un partigiano repubblicano, incappucciato, viene malmenato e poi fucilato da una squadraccia franchista. Il partigiano è Don José, che paga per l’omicidio di Carmen e per la sua appartenenza politica: la fine è dunque l’inizio e all’arena si tornerà alla conclusione della vicenda per assistere all’assassinio dell’eroina eponima.
L’idea è buona, ma non trova sviluppo nell’azione successiva che si trascina statica per tutto il corso dell’opera, intralciata da una quantità di materiale scenico, soprattutto sedie e casse di legno in numero esagerato, che spesso costringe le masse a muoversi in spazi ridottissimi e accalcate al proscenio mentre la gradinata retrostante si “anima” dei wallpaper pacchianotti e non sempre intellegibili di Sergio Metalli. Vagamente d’accatto anche i costumi e pressoché inesistente la coreografia della veterana Leda Lojodice.
De Ana, questa volta, non sembra andare oltre ad un calligrafismo “di tradizione” che ricorda in più di un momento, soprattutto nel secondo atto, il precedente allestimento di Franco Zeffirelli senza tuttavia averne l’allure; non bastano i coriandoli, per altro graditissimi dal pubblico (meno dall’orchestra che, complice il vento, se li è ritrovati quasi tutti in buca) sparati all’ingresso di Escamillo nell’arena e i soliti cavalli per fare spettacolo.
L’unico momento di teatro vero si ha nel quarto atto, ove tutto si compie, ma venti minuti concorrono solo in parte a ripagarci dell’immobilità che li precede.
Dal punto di vista musicale troviamo inqualificabile, nel 2018 e con almeno tre edizioni critiche fra cui scegliere, che si usi ancora l’obsoleta versione Choudens con gli orridi recitativi cantati di Ernest Guiraud che tradiscono nel profondo lo spirito di Bizet e soprattutto dell’Opéra-Comique. È così difficile adattare i dialoghi parlati alle esigenze del pubblico areniano?
Molti i debutti nell’anfiteatro scaligero, a cominciare da quello di Francesco Ivan Ciampa che sembra avere una visione cameristica dell’opera, racchiudendola in spazi sonori intimi nei quali alla fine vengono in gran parte a mancare lo slancio passionale, la necessaria varietà di colori e l’indispensabile incisività ritmica. Ciampa sembra soffrire, almeno inizialmente, lo spazio areniano e in più di un momento lo scollamento fra buca e palcoscenico risulta evidente, soprattutto nel rapporto con il Coro che troppo spesso vive di vita propria.
Anna Goryachova disegna una Carmen anodina nel fraseggio e diseguale nell’emissione, esibendo al contempo una carica sensuale pari a quella di un brodino di pollo e una tendenza a prendersi tempi suoi senza troppo curarsi dell’insieme.
Convince del tutto, al netto di qualche falsetto di troppo sul finale della Fleur, il Don José appassionato di Brian Jagde, che padroneggia con classe i suoi opulenti mezzi vocali e mette la sua fisicità a totale servizio del personaggio, mentre Alexander Vinogradov è un Escamillo affannato e nasaleggiante, oltre che incline all’abuso di portamenti.
Perfetta la Micaela, una volta tanto tutt’altro che smielata, di Mariangela Sicilia che non perde un colpo e dispiega una voce rigogliosa e intonatissima.
Nello stuolo dei comprimari spiccano gli ottimi Davide Fersini nei panni del Dancairo e Enrico Casari, degnamente affiancati dalla Frasquita di Ruth Iniesta e dalla Mercédès di Arina Alexeeva.
Un plauso, infine, all’impeccabile Zuniga di Luca Dall’Amico, al buon Moralès di Biagio Pizzuti e al Coro di Voci Bianche A.LI.VE diretto da Paolo Facincani.
Pubblico infreddolito e soddisfatto.
Alessandro Cammarano
(Verona, 22 giugno 2018)
La locandina
Direttore | Francesco Ivan Ciampa |
Regia, Scene e Costumi | Hugo de Ana |
Coreografia | Leda Lojodice |
Lighting design | Paolo Mazzon |
Projection design | Sergio Metalli |
Carmen | Anna Goryachova |
Micaela | Mariangela Sicilia |
Frasquita | Ruth Iniesta |
Mercédès | Arina Alexeeva |
Don José | Brian Jagde |
Escamillo | Alexander Vinogradov |
Dancairo | Davide Fersini |
Remendado | Enrico Casari |
Zuniga | Luca Dall’Amico |
Moralès | Biagio Pizzuti |
Coro di Voci bianche A.LI.VE. | |
Maestro del coro | Paolo Facincani |
Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Tecnici dell’Arena di Verona | |
Maestro del Coro | Vito Lombardi |
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