Verona: Una Juditha davvero triumphans
“La vera felicità consiste sempre nella pace” canta suadente Giuditta a Oloferne, ma si sa come va a finire: appena quello si addormenta ubriaco, lei gli sfila la spada e la usa per staccargli la testa dal collo, con destrezza insospettabile in una debole vedova. Il macabro trofeo sarà il simbolo della vittoria. Nel Settecento europeo, la pace era quella che si raggiungeva quando la parte “giusta” vinceva la guerra. E l’eroina biblica, per secoli icona della cultura occidentale fra pittura, letteratura e musica, era personaggio ideale se si avevano scopi più o meno velatamente patriottici (e politici), oltre che artistici. Così, a Venezia nell’anno di grazia 1716, nel pieno dell’ennesimo conflitto con il Turco, la storia esemplare di Giuditta si prestava magnificamente ad essere adattata in versi latini dal poeta Giacomo Cassetti per un “Sacrum Militare Oratorium” affidato al genio musicale di Antonio Vivaldi e cartterizzato da trasparente significato allegorico. Ogni personaggio biblico (Cassetti si è premurato di specificarlo, alla fine) corrispondeva infatti a uno dei protagonisti di quelle vicende belliche. Giuditta, naturalmente, era la Serenissima Repubblica, Oloferne il sultano di Costantinopoli.
Il testo di Cassetti non è precisamente la celebrazione di una vittoria, il che fra l’altro aumenta l’incertezza sulla datazione precisa della prima esecuzione, avvenuta (e questo è invece assodato) nel celebre Ospedale della Pietà dove Vivaldi prestava servizio come maestro di concerti. Dato che il coro finale si conclude – senza più allegoria – con parole che sono più che altro un auspicio (“Sconfitto il barbaro trace / trionfi la Regina del mare / e, placata l’ira divina / Adria viva e regni in pace”) si può pensare che l’Oratorio sia stato scritto ed eseguito durante la Quaresima del 1716, quando le sorti della guerra non erano per nulla tranquillizzanti (dopo varie sconfitte, Corfù era stata cinta d’assedio). In questo caso, la prima esecuzione avrebbe avuto una funzione di sostegno del “fronte interno”, con lo scopo di fortificare gli animi e rassicurarli sull’inevitabilità della vittoria veneziana.
Durante l’estate di quell’anno, però, l’andamento del conflitto si rovesciò rapidamente a favore della Serenissima proprio a Corfù. Se l’esecuzione avvenne dopo questi fatti, cioè durante l’Avvento, la Juditha assunse il carattere di “rappresentazione metaforica” di una vittoria raccontata nei sacri testi. Ma questa ipotesi appare meno plausibile proprio per il carattere dei versi conclusivi di Cassetti. È certo invece, e singolare, il fatto che la riscoperta moderna di questa partitura, dopo un oblio durato oltre due secoli, avvenne in Italia (a Siena) nel 1941, nel cuore di un’altra guerra. Di nuovo l’allegoria si poteva intendere nel suo senso più evidente, come un auspicio di future vittorie. In quel caso, non sono mai arrivate.
Oggi, trascurando la bizzarra idea (arrivata nelle aule politiche regionali ma per ora stoppata) di chi vuole utilizzare l’ultimo coro dell’Oratorio come “base” per un Inno ufficiale del Veneto di cui francamente non si sente alcun bisogno (mutate le parole in “Na bandiera, na lengoa, na storia”), la Juditha Triumphans vede come unico vincitore Antonio Vivaldi, che porta al trionfo l’estetica vocale e strumentale del Barocco musicale, in un tripudio di colori che può trovare l’unico appropriato parallelo nella grande pittura veneziana di quella stessa epoca.
Grandiosa partitura “d’effetto”, nata per stupire e affascinare un pubblico mai sazio di melodramma (e infatti “melodramma travestito” è stato definito), la Juditha richiede una particolare consapevolezza storica e filologica, sia per ricostruire il sontuoso affresco strumentale degli accompagnamenti orchestrali, sia per ricreare in ambito vocale lo stile delle “putte” dell’Ospedale della Pietà (prime leggendarie esecutrici dell’Oratorio), che era poi la prassi esecutiva del teatro per musica di quell’epoca.
Da questo punto di vista, l’edizione dell’Oratorio vivaldiano che al Teatro Ristori di Verona ha inaugurato la bella rassegna intitolata “Barocca”, aveva tutto per risultare vincente.
Sul podio è salito Jordi Savall, riconosciuto “guru” della musica antica, in controllo di ogni dettaglio, energico e meditabondo fra sottili ed eloquenti sfumature dinamiche e di fraseggio, pronto ad afferrare la viola da gamba soprano per unirsi al consort di “viole all’inglese”, previsto da Vivaldi per accompagnare l’Aria di Giuditta giunta al momento fatale. Sul palco si è fatto apprezzare il suo fedele ensemble, Le Concert des Nations, duttile ed omogeneo nel dispiegare i colori della sbalorditiva panoplia di strumenti prescritti da Vivaldi, fra i quali il prodigioso salmoè dal suono di tortora, (e poi tiorbe, mandolino, flauti diritti, clarinetto, trombe, oboi, viola d’amore, organo…). Il coro era quello della Capella Reial de Catalunya a sbalzare sapidamente, in educatissime voci solo femminili (come a Venezia nel 1716), i pezzi d’insieme che il “prete rosso” usa per incorniciare l’azione.
E infine, a proscenio si è proposto un gruppo internazionale di soliste di assoluto livello, tutte stilisticamente impeccabili nel delineare il modo di cantare dell’epoca, come risulta da fonti e documenti: belcanto inteso come virtuosismo, sottigliezza espressiva, seduzione timbrica, fantasia e qualità negli abbellimenti prescritti per ogni “da capo” all’interno delle Arie, immancabilmente tripartite.
Giuditta era il mezzosoprano Marianne Beate Kielland, capace di una dolcezza espressiva di bella qualità teatrale, non incrinata dalla sensazione di attenuata drammaticità e “peso” nei passaggi più tesi, ma complessivamente molto convincente nel colore ambrato del suo timbro. Un momento di straordinaria poesia musicale il suo dialogo quasi imitativo con il salmoè concertante nell’Aria “Veni, mi sequere fida”. Vagaus, servo di Oloferne, ha visto trionfare Rachel Redmond, soprano dall’agilità affascinante (svettante nella sua celebre Aria di furore in sottofinale) e dalla gamma dinamica ed espressiva articolata con sapienza e sottolineata al meglio da fiati, colori e legato. Marina De Liso è stata un Oloferne di sorvegliata incisività, con una linea di canto di elegante forza comunicativa, mentre Lucía Martín-Cartón, timbro chiaro e raffinato, ha realizzato la pare della serva fedele di Giuditta, Abra, con solare sensibilità. Ieratica Kristin Mulders, che ha delineato con colore scuro e fraseggio accurato la parte di Ozias, allegoria del sommo pontefice. Tutti impeccabili gli strumentisti, sugli scudi il primo violino Manfredo Kraemer, che ha imbracciato anche la viola d’amore, e Lorenzo Coppola, magistrale al salmoè.
Teatro esaurito da mesi, pubblico avvinto, alla fine trionfo per tutti.
Cesare Galla
(12 ottobre 2018)
La locandina
Direttore | Jordi Savall |
Juditha | Maria Beate Kielland |
Vagaus | Rachel Redmond |
Holofernes | Marina De Liso |
Abra | Lucía Martín-Cartón |
Ozias | Kristin Mulders |
Le Concert des Nations | |
La Capella Reial de Catalunya |
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