Vicenza: fra le danze ubriacanti del Danubio

“C’è un mulino dove si macina tristezza. A pensarci, c’è ovunque, sempre, un velo di tristezza”. Ma di cosa parla Enrico Bronzi? Di un blues sulle rive del Mississippi? No. Con lui, sul palco del Comunale di Vicenza c’è il Muzsikàs Folk Ensemble e, lontane, nella penombra, ci sono sì le acque, ma quelle del Danubio. Eppure, a pensarci, qualche legame potrebbe esserci, quelle blue note, quei quarti di tono. “Ma perché gli ungheresi sono sempre un po’ tristi?”.

Il concerto dell’altra sera, inserito nella stagione della Società del Quartetto di Vicenza, era sicuramente anomalo, rispetto ai formati standard delle serate in abbonamento: era più una lezione-concerto (con tutti i rischi del caso, più o meno calcolati, quando fra il pubblico ci sono sia musicisti che musicanti, musicofili e appassionati di ogni tipo) ma era anche un racconto, un diario di un viaggio immaginario, un confronto, suonato e raccontato, fra due mondi forse meno lontani di quel che un tempo si voleva far credere: quello della musica popolare e quello della musica colta, o magari anche accademica. Il tutto nel nome di György Ligeti (anche se aleggiava di continuo il nome di Béla Bartók, certamente meno popular ma, nessuno ce ne voglia, ben più imprescindibile o, come si suol dire, forse pure influente).

La siffatta impaginazione del concerto aveva, tutto sommato, uno scopo: quello di far sentire certe pagine di musica da camera di Ligeti (soprattutto una: la Sonata per viola, nella trascrizione per violoncello, ad opera dello stesso Bronzi), intervallate, in certo qual modo addomesticate, dalle musiche da ballo dell’ensemble popolare, anche per dimostrare quanto fosse forte il legame fra popolare e colto nella musica ungherese del ‘900.

Ma di quale musica ungherese stiamo parlando? Non certo di quella registrata da Bartók nelle campagne magiare di oltre un secolo fa, quella sì davvero triste, quale non poteva che essere quella dei contadini in lotta quotidiana con la semina che non dava buoni frutti, con la morte della vacca da latte, con i problemi tutto sommato simili a quelli degli agricoltori afroamericani della Louisiana o a quelli dei veneto-emiliani dalla bassa padana di qualche decennio fa. Non sono neanche, di Bartók, i ritmi dispari misti, che a noi montanari e campagnoli di qua delle Alpi, ci sembrano tanto strambi.

La musica che abbiamo ascoltato dal Muzsikàs Folk Ensemble era tutta per le danze dei matrimoni, quella che prima si balla e poi eventualmente si ascolta, tutta a due tempi, due passi, two step, veloce, velocissima, anche col cambio di tempo doppio (double time feel, direbbero i jazzisti), lo slap del contrabbassista che fa sbattere le corde sulla pancia dello strumento, mentre il violista suona gli accordi in levare e i violini amano far sentire come la nostra (occidentale) idea di intonazione non sia certo quella che interessa loro.

Il colto e il popolare. L’antinomia, o probabilmente semplicemente la diversità fra i due mondi, se ne era uscita appena dopo poche note, quando il primo violino, fondatore del gruppo, Mihàly Sipos, aveva ripreso, come piace a lui, il suono del “Dunaparton”, prima sentito così educatamente bello dal violoncello di Enrico Bronzi. Il suono popolare magiaro degli archi è naturalmente più prossimo a quello degli archi popolari di tante parti del mondo, dalle tradizioni slave a quelle irlandesi, da quelle alpine a, persino, il country americano che ha comunque origini europee.

Il leader del gruppo, il bassista-percussionista Dàniel Hamar, ha un suono ruralissimo e quando si impegna al tamburo tira fuori i tempi misti che a noi sembrano quelli latino-americani della beguine (in fondo il 3+3+2 dà sempre un totale pari: niente a che vedere con certi indiavolati metri dispari, che ritroviamo non solo nei Mikrokosmos bartokiani). Il secondo violino, Làszlo Porteleki, si lascia andare in folate più o meno improvvisate (trattandosi sostanzialmente di una sequenza di accordi in loop, su cui infila saliscendi inviperiti di scale); il violista Làszlo Mester, se può andare dove vuole, piazza accordi che escono un po’ di tonalità, ma poi rientra, appena il contrabbasso ne inquadra il campo d’azione. Tuttavia, se questa musica la si ascolta con un po’ di disincanto, si capisce che è proprio e del tutto musica per ballare, che inizia e continua in moto perpetuo sino al momento in cui i suonatori cadono sfiniti.

La Sonata di Ligeti è su un altro pianeta, ma davvero un altro, anche rispetto a “2001: Odissea nello spazio”. È una composizione complessa, in sei movimenti – Hora lungă, Loop, Facsar, Prestissimo con sordino, Lamento, Chaconne chromatique – che Bronzi ha trascritto per il suo prezioso strumento ed eseguito quasi integralmente, pur avendo cura di interpolare sempre, fra una parte e l’altra, le danze del Muzsikàs Folk Ensemble.

Enrico Bronzi è un violoncellista spettacolare, che padroneggia da par suo sia lo strumento che il linguaggio. Forse, così facendo, si diverte e fa anche, probabilmente divertire il pubblico, o quantomeno gli fa trascorrere una simpatica, piacevole serata, fuori dagli schemi.

Perché nessuno è uscito con tristezza. A qualcuno sarà rimasta la curiosità di risentire Ligeti, come si deve (ma allora basterà sicuramente la Sala del Ridotto); più di qualche altro se ne sarà andato con la voglia di riascoltare il folk magiaro nel suo proprio habitat. Tuttavia, non volendo prender la strada per Budapest, si potrà pensare a una festa di matrimonio, che si protrarrà dal venerdì al lunedì, fuori dalla sala grande, sotto la vela di Viale Mazzini, fra goulash e tocaj. Noi però non abbiamo il Danubio, ma solo l’oasi di Casale.

Riccardo Brazzale
(24 febbraio 2025)

La locandina

Violoncello Enrico Bronzi
Muzsikás Folk Ensemble
Violino Mihály Sipos
Violino, Tamboura László Porteleki
Viola, Three-String Viola László Mester
Contrabasso “Hit-Gardon”Daniel Hamar
Programma:
György Ligeti
Sonata per violoncello solo
Sonata per viola nella trascrizione per violoncello
Béla Bartók
due Duetti dai 44 Duetti per violino
Danze popolari ungheresi e improvvisazioni in stile magiaro

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