Vicenza: Un Mozart “ultimo e profetico” per Lonquich e la OTO
A patto di non ritenere che costituisca un’immersione fra tragiche premonizioni e sublimi rassegnazioni, una serata interamente dedicata alle “opere ultime” di Mozart offre esperienze d’ascolto in effetti straordinarie. Perché se davvero non ha alcun senso – né storico né documentario in senso stretto – pensare che il compositore salisburghese fosse consapevole che la sua vicenda terrena si sarebbe drammaticamente e precocemente conclusa per un’epidemia d’influenza scatenatasi a Vienna nel tardo autunno 1791, resta il fatto che i suoi ultimi anni (e ultimi mesi) sono dominati da una evoluzione del suo linguaggio musicale evidente e importante. Quando morì, Amadeus era sempre più immerso in uno stile nuovo e diverso. Qualcosa che andava oltre il Classicismo, ma non in direzione di improbabili lidi pre-romantici ma piuttosto di un salda e per certi aspetti visionaria saldezza neoclassica, frutto della sintesi fra la dialettica della forma-sonata e il rigore del contrappunto di impronta bachiana, illuminata da nuovi e mutevoli orizzonti armonici. Ed è legittimo – per noi posteri – il rimpianto che non sia stato possibile vedere quale effetto l’ultimo Mozart avrebbe avuto sulla musica tedesca, se la sua vicenda terrena si fosse prolungata.
Se ne parla perché scampoli sontuosi di questa evoluzione stilistica sono stati proposti nel concerto inaugurale della stagione dell’Orchestra del Teatro Olimpico, che il direttore stabile Alexander Lonquich ha voluto impaginare proprio scegliendo alcuni capolavori riconosciuti del Mozart ultimo. Si è cominciato con l’Ouverture del Flauto magico e con la sua irresistibile trina contrappuntistica oltre i magniloquenti accordi rituali massonici: l’ultima pagina completata del capolavoro operistico in tedesco (28 settembre1791, la prima si ebbe due giorni più tardi), quella che dà la misura della straordinaria invenzione grazie alla quale la favola iniziatica viene raccontata con un linguaggio “alto” eppure coinvolgente, mostrando la profondità che la poetica essenzialità può attingere.
Si è proseguito con il Concerto per pianoforte K. 595, il ventisettesimo e ultimo, che Mozart datò nel suo personale catalogo al 5 gennaio 1791, ma che risale, almeno per due terzi e in abbozzo, a un’epoca precedente di tre anni, come hanno dimostrato le analisi sulla carta del manoscritto originale. “Uno sguardo sull’eternità”, si è detto autorevolmente. Forse, più semplicemente, un lavoro di carattere “scolastico” destinato a qualche promettente (e probabilmente compromettente) allieva di buon talento, costruito tematicamente intorno a vari utilizzi del proprio e dell’altrui catalogo (il Larghetto si basa su un tema operistico di Joseph Haydn, l’introduzione di un recitativo accompagnato, che risale a dieci anni prima). Ma soprattutto uno spazio a suo modo sperimentale per quanto riguarda la tavolozza espressiva delle modulazioni, dentro a un linguaggio solistico e orchestrale in alcuni passaggi decisamente rarefatto.
Il percorso, cronologicamente a ritroso, si è completato con l’ultima Sinfonia, quella in Do maggiore K. 551, nota come Jupiter (messa a catalogo il 10 agosto 1788). Un grandioso capolavoro che è prodigioso scrigno di una scrittura contrappuntistica fitta, sofisticata e ciò nondimeno trascinante nella sua capacità di aderire, specie nel primo e nell’ultimo movimento, alle ragioni classicistiche degli sviluppi tematici con i loro articolati piani armonici. Un procedimento di analogo densità, è stato giustamente osservato, sarà proprio solo dell’ultimo Beethoven (la Sonata per pianoforte op. 106, ma anche la 110 e la 111) e più avanti di un autore come Brahms, “eroe” del rigore antico dentro alla sensibilità romantica.
A fronte di un Mozart così visionario e “denso” nell’Ouverture e nella Sinfonia, che addita insondabili meditazioni oltre l’apparente semplicità nel Concerto, Lonquich sia come direttore che come solista al pianoforte ha scelto la strada di un approccio interpretativo lucido e preciso, a costo di sacrificare qualche sottigliezza di suono a favore della chiarezza espositiva. In K. 595 ha delineato un approccio quasi beethoveniano (del Beethoven prima maniera, beninteso, che approdava definitivamente a Vienna pochi mesi dopo la morte di Mozart), riservando all’orchestra una gamma di contrasti dinamici piuttosto accentuati e a sé una disinvolta essenzialità, nell’ultimo movimento increspata da accattivante vivacità. Interpretazione di efficace musicalità e di misurata poesia, specie per una certa quale omogeneità media nei colori. Ben altra sottigliezza il pianista-direttore ha sciorinato nel bis per solo pianoforte, ovviamente un’altra “ultima pagina” del salisburghese, l’Adagio dalla Sonata K. 576 (anno 1789), risolto in emozione patetica distillata fra eloquenza a bassa voce e profonda introspezione.
Sul versante orchestrale, Lonquich ha cercato di affiancare il rigore e la chiarezza delle linee polifoniche all’efficacia della trama timbrica, che del resto delle prime e condizione essenziale. I giovani strumentisti della Oto, come sempre appassionati e concentrati, hanno mostrato meno precisione di altre volte, specialmente nei fiati, mentre fra gli archi si sarebbe talvolta apprezzata, specialmente nella Jupiter, una presenza più corposa in tessitura bassa. Ne è comunque sortita un’esecuzione intensa e stilisticamente efficace, che il direttore ha guidato con mano ferma senza spingersi troppo oltre il rassicurante confine di un Classicismo solido ed equilibrato.
Pubblico folto, al Teatro Comunale di Vicenza. Molto cordiali alla fine gli applausi.
Cesare Galla
(6 novembre 2017)
La locandina
Alexander Lonquich | Direttore e pianoforte solista |
Wolfgang Amadeus Mozart | |
Ouverture da “Il Flauto magico” | |
Concerto per pianoforte e orchestra n. 27 in Si bem. magg. | |
Sinfonia n. 41 in Do magg. “Jupiter” | |
Orchestra del Teatro Olimpico |
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