Vicenza: la “foresta” di Pelléas et Mélisande
La Verità, cercata, taciuta, sospesa eppure sempre a portata di vista: questo il fondamento del Pelléas et Mélisande.
La pretende Golaud, ripetutamente, ma la domanda anche Pelléas, ottenendo entrambi risposte vaghe eppure chiarissime.
E insieme alla verità c’è l’acqua in tutte le sue declinazioni, elemento vitale e creatore e allo stesso tempo complice di segreti e nasconditrice: nell’acqua Mélisande cerca alternativamente morte e conforto, trovando infine la prima; l’acqua della fontana è tanto cristallina quanto quella della grotta è torbida e fetida, il tutto in un costante gioco di simbolismo ermetico – convintamente abbracciato da Debussy che all’epoca non era lontano dalle correnti teosofiche – a cui si coniuga un mai celato esoterismo.
Oltre a questi vi è un terzo elemento determinante: la foresta, nella quale ci si smarrisce per non più trovarsi o, peggio, per rinvenire ciò che si vorrebbe sfuggire.
Proprio l’intrico di rami costituisce la caratteristica pregnante dell’allestimento in scena al Teatro Olimpico – coprodotto con la Iván Fischer Opera Company, Müpa Budapest Festival dei Due Mondi di Spoleto – per la sesta edizione del Vicenza Opera Festival.
Lo spazio teatrale, grazie alle scene di Andrea Tocchio, si ricopre di vegetazione all’interno della quale trovano posto l’orchestra, mimetizzata ma presentissima, e l’azione drammaturgica, il tutto in una sorta di affabulazione continua che richiama le atmosfere dei dipinti di Waterhouse – l’analogia di Mélisande con Ofelia è evidentissima – e di Dante Gabriele Rossetti.
Un ulteriore omaggio ai Preraffaelliti viene dai costumi, davvero sontuosi nella ricerca di particolari, realizzati da Anna Biagiotti e dal disegno di luci algido Tamás Bányai.
In questo spazio dell’anima – in cui gli altri elementi dominanti sono una vera da pozzo, un laghetto e due praticabili sul fondo che, in un silenzioso movimento di ascesa e discesa, evocano gli ambienti del palazzo di Arkël – Iván Fischer e Marco Gandini decidono di raccontare il lato più oscuro dell’opera, esaltando i momenti di maggior tensione drammatica, mettendo in luce la violenza quasi esasperata di Golaud che infatti qui agisce più come un Canio o un Compar Alfio che non come un principe ereditario.
Di questa visione naturalistica fa in parte le spese anche il vecchio re che allunga pesantemente le mani su Mélisande che, come ella ripete ossessivamente, non può sopportare di essere toccata ma che qui ricade nello stereotipo della nevrotica-fragile perennemente accartocciata su stessa.
L’Iván Fischer direttore “alberovestito”per l’occasione convince più, anche se non totalmente, di quello regista; la sua lettura si incentra su una narrazione tanto serrata quanto a tratti irruenta, lontana dalle atmosfere in filigrana e alle minuscole pennellate cromatiche proprie di Debussy.
Del resto lo stesso Fischer, nell’intervista contenuta nel programma di sala, ravvisa più di una contiguità tra il compositore francese e Wagner – tesi legittima ma opinabile – soprattutto per quanto attiene allo Sprechgesang; resta il fatto che se nei primi due atti la concertazione risulta di cristallina nitidezza, nel terzo e quarto, dove già la stessa musica trova accenti di maggior intensità, Fischer sembra cedere in qualche modo a tentazioni veriste eccedendo in volume ed agogiche.
Ancora una volta superba la prestazione della Budapest Festival Orchestra.
Luci ed ombre sulla compagnia di canto.
Non risulta esattamente impeccabile il Pelléas di Bernard Richter; il tenore elvetico è quasi sempre spoggiato e il suo canto diafano appare condito da una costante affettazione, il tutto a dar vita ad un personaggio poco convincente.
Non fa meglio Patricia Petibon, più concentrata ad interpretare se stessa che non Mélisande, abbandonandosi a movenze da diva del muto che risulterebbero filologicamente corrette se il tutto fosse accompagnato da un canto capace di uscire dal perimetro del sussurro.
Molto bene il Golaud disperato e sconfitto di Tassis Christoyannis, il quale soffre comunque di un’interpretazione davvero sopra le righe dettata da regia e direzione. La voce però corre sicura su una linea di canto impeccabile e si giova di una ricca tavolozza di colori.
Ottimo anche il vecchio Arkel di Franz-Josef Selig, autorevole negli accenti, possente nella cavata, empaticamente partecipe.
Bravi Yvonne Naef nel tratteggiare una Geneviève presente e speranzosa e Peter Harvey nel doppio impegno come Medico e Pastore.
Se la cava Oliver Michael al quale è affidata la parte di Yniold.
Il pubblico gradisce e applaude lungamente.
Alessandro Cammarano
(26 ottobre 2023)
La locandina
Direttore | Iván Fischer |
Regia | Iván Fischer e Marco Gandini |
Scenografia | Andrea Tocchio |
Costumi | Anna Biagiotti |
Luci | Tamás Bányai |
Personaggi e interpreti | |
Pelléas | Bernard Richter |
Mélisande | Patricia Petibon |
Golaud | Tassis Christoyannis |
Arkël | Franz-Josef Selig |
Geneviève | Yvonne Naef |
Un medico / voce di pastore | Peter Harvey |
Yniold | Oliver Michael |
Budapest Festival Orchestra |
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