Vicenza: l‘Ecuba di Malipiero rinasce all’Olimpico
Nel 1920, l’ultrasessantenne Giacomo Puccini catalogava Gian Francesco Malipiero, ormai vicino ai 40, fra “coloro che non vogliono avere idee”. In quell’anno, a luglio, il compositore veneziano aveva portato al debutto all’Opéra di Parigi le Sette canzoni, ed evidentemente il lucchese non aveva apprezzato il pur piccolo e non voluto “parallelismo” che secondo gli storici la partitura in questione presenta rispetto a Suor Angelica. In realtà, per quanto riguarda il teatro musicale, Malipiero di idee ne aveva molte, come testimonia il suo fitto e oggi quasi sempre trascurato catalogo, che comprende una quarantina di titoli lungo un periodo che va dal 1907 al 1970. Se negli Anni Venti il suo modernismo lo aveva portato a realizzare lavori che sono stati definiti anticonvenzionali, cioè improntati a un netto modernismo sia sul piano musicale, con riferimenti a Debussy e Stravinskij, che su quello drammaturgico, con soggetti largamente atipici, le complesse vicende de La favola del figlio cambiato (su libretto di Luigi Pirandello) avrebbero modificato il suo approccio al teatro per musica.
Quell’opera fu infatti rappresentata con successo in Germania all’inizio del 1934 ma ben presto fu bloccata dal regime nazista, e in seguito analoga sorte conobbe in Italia, dove fu rappresentata una sola volta.
Negli anni seguenti, lo stile di Malipiero sarebbe diventato più convenzionale sia dal punto di vista musicale che da quello teatrale, realizzando un accostamento ai temi e allo stile del sempre più diffuso neoclassicismo. Risalgono a questo periodo lavori tratti da opere di Shakespeare (Giulio Cesare), Calderón de la Barca (La vita è sogno) ed Euripide (Ecuba).
Quest’ultimo lavoro (Opera di Roma, 11 gennaio 1941) si basa su un libretto – scritto dallo stesso Malipiero – nel quale le tragiche conseguenze della guerra di Troia su personaggi come la stessa moglie di Priamo e i suoi figli Polissena e Polidoro vengono condensate in tre rapidi atti che poco spazio lasciano alla dolente meditazione filosofica (affidata a un coro femminile), per puntare invece su una narrazione impetuosa, coinvolgente, quasi violenta nella sua immediatezza.
Dal punto di vista vocale, in una tessitura che singolarmente vede tutte le voci maschili nella zona grave, questa scelta viene attuata con un declamato onnipresente e molto vario: una sorta di fremente “recitar cantando” che deve qualcosa anche ai turgori espressivi del Verismo e tuttavia se ne distanzia proprio per il rigore dell’adesione alla parola, per la distanza che comunque viene mantenuta da qualsiasi apertura melodica “all’antica” (ovvero, alla Puccini), per l’efficacia dei non numerosi passaggi dialogici.
Ma è soprattutto la scrittura strumentale – nell’Introduzione, nelle Danze alla fine del primo atto, in un Interludio ma anche sempre nei densi accompagnamenti – che determina magistralmente la temperatura tragica della narrazione. L’orchestra di Malipiero è ampia (quattro corni, tre tromboni e due trombe, varie percussioni), diversificata nei timbri per la presenza decisiva dell’arpa, del corno inglese, del clarinetto basso e per un uso mai banale degli archi. E si pone come un vero e proprio “personaggio” che determina allo stesso tempo il clima soggettivo dei protagonisti e quello oggettivo della rappresentazione, con una scrittura di autentico virtuosismo espressivo, dalle soluzioni armoniche di efficacia mai dirompente ma sempre sottilmente dettagliate e mai banali. Il risultato è una partitura che drammaticamente e musicalmente segna un punto di mediazione fra le esuberanze moderniste della prima maniera di Malipiero (superate ma anche sapientemente elaborate in un linguaggio più ampiamente comunicativo) e il classicismo più rarefatto della scuola italiana, tipico di un altro compositore importante in quell’epoca come Ildebrando Pizzetti.
Quest’anno ricorre il cinquantenario della morte di Gian Francesco Malipiero, ma le iniziative al proposito non sono numerose e articolate come sarebbe stato auspicabile. Fra esse, si segnala la programmata integrale delle composizioni sinfoniche con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius. E si colloca in posizione decisamente rilevante l’esecuzione proprio dell’Ecuba, protagonista la stessa orchestra padovana, salutata domenica sera dal pubblico presente al teatro Olimpico di Vicenza con molti e convinti applausi.
La proposta costituiva il clou della parte programmata a giugno dell’undicesima edizione del festival Vicenza in Lirica, che ha realizzato così una pregevole quanto inedita iniziativa di alto valore storico e culturale, caratterizzata anche dal fatto che la prima esecuzione assoluta dell’opera aveva visto sul podio un altro grande veneto, Tullio Serafin, del cui archivio storico è conservatore il direttore artistico del festival vicentino, Andrea Castello.
A ciò si deve, fra l’altro, l’interessante pubblicazione nel programma di sala di uno scambio epistolare fra Malipiero e il direttore nel mese di ottobre del 1940, e dunque pochi mesi prima del debutto dell’opera. Il musicista parla delle possibili interpreti della prima ma anche di Giorgio de Chirico come “pittore ideale per la scena”, insistendo per il suo coinvolgimento nella rappresentazione. Dalla risposta di Serafin si apprende che nella compagnia scritturata per la rappresentazione di Ecuba faceva parte anche il baritono bassanese Tito Gobbi, allora ventottenne, cui il direttore affidò la parte di Ulisse, mentre il discorso sullo scenografo-pittore viene rimandato. Come prova la locandina dello spettacolo del 1941 – pure pubblicata nel programma – le scene sarebbero state affidate a un altro importante pittore italiano, Felice Casorati.
All’Olimpico, Ecuba è stata proposta in forma di concerto e la scelta probabilmente inevitabile (vista la carenza di spazio sul palcoscenico) di tenere i cantanti alle spalle dell’orchestra ha forse un po’ penalizzato l’esecuzione nel rapporto fra lo strumentale e le parti vocali, non sempre del migliore equilibrio.
In ogni caso, compagnia mediamente assai giovane ed efficace sia vocalmente che stilisticamente. Ecuba era il soprano Yuliya Pogrebnyak, spiccato carattere drammatico ben adeguato alla parte e sostanziale efficacia espressiva. Al suo fianco, la Polissena dolente e commovente di Laura Polverelli, stilista di rango, e la servente concentrata e compresa disegnata da Graziella De Battista.
Ulisse era Paolo Leonardi, linea di canto nitida e incisiva; nel ruolo di Taltibio si è proposto efficacemente Patrizio La Placa, mentre una significativa adesione alla parola e una notevole profondità espressiva ha dimostrato Bruno Taddia, chiamato all’ultimo momento per sostituire Alberto Mastromarino nel ruolo di Polimestore, che compare al terzo atto e disegna uno dei picchi tragici dell’opera. Completava positivamente il cast Michele Soldo, severo e rigoroso Agamennone.
Il coro era l’Iris Ensemble istruito da Marina Malavasi, duttile e ben equilibrato; l’Orchestra di Padova e del Veneto si è proposta al meglio per nitidezza strumentale e duttilità espressiva, guidata da Marco Angius in un’esecuzione chiaroscurale di intrigante impatto drammatico “moderno”.
Cesare Galla
(11 giugno 2023)
La locandina
Direttore | Marco Angius |
Personaggi ed interpreti: | |
Ecuba | Yuliya Pogrebnyak |
Polissena | Laura Polverelli |
Una servente | Graziella DeBattista |
Ulisse | Paolo Leonardi |
Taltibio | Patrizio La Placa |
Agamennone | Michele Soldo |
Polimestore | Bruno Taddia |
Orchestra di Padova e del Veneto | |
Coro Iris Ensemble | |
Maestro del coro | Marina Malavasi |
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