Vicenza, l’Olimpico “distanziato” riapre con il jazz
Con il senno di poi, forse la presenza di qualche “congiunto” degli invitati avrebbe almeno in parte attenuato la sensazione regalata dalla riapertura del teatro Olimpico. Persone con la possibilità di stare vicine, intendiamo, per provare a ricostruire il senso profondo dell’assistere a uno spettacolo dal vivo, la condivisione: con chi sta sul palcoscenico, naturalmente, ma anche con chi abbiamo a fianco, a volte un compagno della nostra vita ma anche – nella normalità – un perfetto sconosciuto. Invece, i medici e gli infermieri dell’ospedale San Bortolo dedicatari del concerto jazz vicentino della ripartenza, bardati con mascherina ma soprattutto rigorosamente distanziati l’uno dall’altro sulle gradinate, apparentemente sparpagliati in realtà soggetti alla inesorabile geometria della cordella metrica, offrivano un’inquadratura degna di un inquietante film distopico. Ciascuno per sé dentro la cinquecentesca conchiglia di Palladio e Scamozzi, con abbastanza spazio libero intorno per evitare insidiosi contatti: un insieme di ascoltatori solitari, non un pubblico nel senso vero del termine.
Era inevitabile ed è stato forse perfino salutare (se il termine non risuona troppo ironico) fare questa esperienza. Seguendo le disposizioni di sicurezza sanitaria per i teatri valide fino all’altro ieri – e sulle quali gli organizzatori avevano lavorato, essendo impossibile cambiare tutto in corsa a poche ore dall’andata in scena – il risultato era appunto questo. Per dirlo con una parola sola: improponibile.
La nuova ordinanza regionale offre da qui in avanti una prospettiva certamente diversa: la “dottrina Zaia” che teorizza uno spettatore ogni due posti fissi, senza un tetto al numero (in generale: 200 al chiuso, mille all’aperto) dovrebbe permettere di avere all’Olimpico quasi 250 spettatori. Può essere un pubblico, nel senso che si diceva sopra. Le prossime iniziative – l’appuntamento sicuro è con il Ciclo di spettacoli classici a fine settembre, prima forse con l’opera barocca – diranno quanto.
Intanto però, il festival Vicenza Jazz e lo sponsor Luca Trivellato hanno costruito, nel mettere a punto questo concerto del primo giorno di ripartenza, un’esperienza comunque preziosa. In attesa di tornare a essere pubblico, chi c’era ha potuto verificare che ascoltare musica dal vivo è come andare in bicicletta: non si dimentica come si fa, si riprende senza problemi. Per quel che vale, chi scrive non lo faceva da 120 giorni (era l’11 febbraio, Teatro Comunale di Vicenza, stagione del Quartetto, Elio e un selezionato gruppo strumentale a ripercorrere L’Opera da tre soldi di Brecht e Weill) ma non ha avuto alcuna impressione di essere all’agognato emozionante ritorno a un’abitudine prediletta, abbondata per forza e a lungo. Semplicemente, la sensazione è stata quella di un discorso che riprende naturalmente, un “dove eravamo rimasti” della musica e subito un tuffo nei pensieri degli esecutori e nel suono che ne ricavano. Costruito e “raccontato” in tempo reale e a pochi metri di distanza. Suono tanto più sofisticato trattandosi di una serata jazz, nella quale dunque gli elementi di elaborazione, improvvisazione e “rilettura” sono preponderanti rispetto alla lettera di una partitura fissata una volta per tutte.
È il privilegio degli ascoltatori. Perché si può immaginare che invece loro, i nove protagonisti di “Jazz Is Back”, ciascuno a modo suo, qualche sensazione supplementare e nuova da gestire l’abbiano vissuta, nel tornare a far musica dal vivo, dopo la lunga traversata del deserto, l’affollarsi di pensieri raramente piacevoli che l’hanno accompagnata e l’evidenza dei molti problemi pratici che ha creato. Problemi di cui ha parlato con chiara delicatezza, prima che la serata avesse inizio, il trombettista Paolo Fresu.
Presentata dal direttore artistico Riccardo Brazzale, la serata si è dipanata attraverso tre set per duo e uno per terzetto: una fotografia piuttosto plausibile del jazz italiano che ha tenuto conto delle differenze generazionali e della complessità del pensiero musicale, mediando qualche inevitabile “ruggine” non tanto nella tecnica o nell’invenzione quanto nella naturalezza con l’evidenza di una musicalità comunque ricca e profonda. Il dotto sofisticato ha affermato le sue ragioni in apertura, nella sapienza del clarinettista e sassofonista Gianluigi Trovesi, a suo agio insieme al pianista Umberto Petrin nell’indagare e “personalizzare” le complesse trame ritmiche e armoniche di un compositore classico (ma “irregolare”) come il russo di primo Novecento Aleksandr Skrjabin. Il popolare ricondotto a suprema eleganza timbrica e vitalità ritmica ha celebrato i suoi fasti alla fine, con il flicorno (e la tromba) di Paolo Fresu e il guizzante bandoneón di Daniele Di Bonaventura a inoltrarsi in alcuni classici della canzone latino-americana, a partire da Que serà di Chico Buarque. Nel mezzo, l’accattivante sottigliezza espressiva nel bel dialogo fra il trombettista Luca Aquino e la duttile voce di Flo, ben sostenuti dal pianismo concreto ed evocativo di Giovanni Guidi; e la sapienza misurata e fortemente introspettiva dello “storico” sax di Claudio Fasoli, in equilibratissimo rapporto con il pianoforte di Paolo Birro. E bene ha fatto Brazzale a sottolineare, nel presentarli, come questi due musicisti siano stati e siano fra i protagonisti del percorso che ha portato il jazz a essere una colonna della didattica nei conservatori e nelle scuole musicali italiane.
Chiusura tutti insieme, con il popolare corale Abide with me armonizzato per l’occasione da Brazzale, che si è ripreso per qualche minuto il ruolo di “jazz-band leader” per il quale è riconosciuto protagonista del jazz italiano.
Cesare Galla
(15 giugno 2020)
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