Vicenza: l’Ungheria arriva al Teatro Olimpico ed è subito Falstaff
Il praticabile di legno leggermente sollevato si allunga parallelo alla “frons scenae” del Teatro Olimpico fino all’altezza della Porta Regia, poi piega e subito si biforca, inoltrandosi verso il lato sinistro del palcoscenico, quasi a disegnare una sorta di Y. A proscenio, una piccola pedana si sporge sulla platea, dalla quale è accessibile con ripide scalette. L’impianto scenico – se così vogliamo definirlo – è quello della produzione originale di questo Falstaff, nata nella capitale ungherese dalla collaborazione fra Budapest Festival Orchestra e Müpa, ma certo al cospetto della monumentalità palladiana fa un effetto particolare, diverso. Sembra quasi un suggerimento: le semplici strutture lignee del teatro elisabettiano calate dentro all’algido manierismo decorativo con cui nel 1585 il Rinascimento si congeda ripensando lo spazio teatrale degli antichi romani. Esperimento senza seguito, è ben noto, e per questo ancora più “sfidante” al giorno d’oggi.
La prova che negli ultimi anni attrae sempre più interpreti dell’opera è quella di calare il teatro per musica dentro a uno spazio nato per un teatro di parola nel quale la musica era elemento implicito quanto ampio, secondo l’interpretazione che nel ‘500 si dava della tragedia greca. Al proposito, è vero quello che si è premurato di chiarire Iván Fischer introducendo questa sua nuova avventura musicale legata all’Olimpico, il Vicenza Opera Festival realizzato insieme alla Società del Quartetto: all’inizio, negli anni in cui gli accademici vicentini pensavano al loro teatro coperto e “stabile”, le strade dell’opera e della prosa correvano parallele e vicinissime, s’intersecavano spesso, si condizionavano senza alcun problema di commistione fra generi. Oltre all’opera delle origini, quindi, il genere melodrammatico che più si attaglia “anche” all’Olimpico è quello in cui parola e musica più strettamente sono legate, a prescindere dall’epoca e dallo stile. Di qui la scelta del direttore ungherese: l’ultima opera di Verdi, Falstaff, sorpassa di colpo una tradizione formale (non solo italiana) plurisecolare, rinuncia alle forme chiuse, genera un flusso continuo di canto in conversazione (e in complessa sovrapposizione polifonica), lascia che la melodia emerga solo a tratti, quasi in controluce, affermandola a rimbalzo fra le voci e gli strumenti, lasciandola sospesa, intuitiva ma non meno accattivante. Qualcosa che non di rado riecheggia da un punto all’altro del meraviglioso meccanismo drammatico congegnato da Arrigo Boito intorno al personaggio di Shakespeare. Nata alla fine dell’800, è una partitura innovativa che guarda all’antico per trovare nuovi meccanismi di drammaturgia musicale.
Inserito nell’Olimpico, il sistema di praticabili importato da Budapest si è dimostrato miracolosamente congruo a una sorta di ampliamento dei piani rappresentativi, offrendo una buona soluzione per la sistemazione della complessa “macchina sonora” necessaria all’esecuzione, probabilmente mai sperimentata prima. Un parte dell’orchestra – gli archi – ha preso posto nelle “anse” delle passerelle; tutto il resto – legni, ottoni, arpa, timpani e grancassa – si è sistemato in platea, in pratica alle spalle di Fischer, che di fatto non aveva podio, ma una postazione spesso nel mezzo dell’azione. I personaggi gli giravano intorno (e talvolta lo chiamavano in causa, trovandolo sempre disposto a interagire, quasi a interloquire). La regia, firmata dallo stesso direttore insieme a un esperto di questo spazio come Marco Gandini, ha così potuto rendere ragione della dinamica inesauribile che muove i personaggi di questa “folle journée alla Verdi”, senza perdere granché negli effetti (che troppo spesso in quest’opera vengono puntato puntati, sbagliando, sul farsesco) e guadagnando enormemente – e in maniera fascinosa – sulla “messa a fuoco” del meccanismo drammatico e del suo perfetto corrispondente musicale.
Il clou si è avuto nel terzo atto, quando l’orchestra non è stata solo la protagonista strumentale della notte delle burle incrociate e del “tutti gabbati”, ma ha assunto un ruolo scenico preciso, con gli strumentisti agli archi che si sono trasformati in figuranti misteriosamente rilucenti (alcuni di loro si sono anche uniti al coro “Á la c’ARTe” istruito da György Philipp) e hanno fatto la parte di spiriti, folletti, elfi e compagnia burlante, con gli archetti branditi contro il grassone sbeffeggiato e incorreggibile, nella famosa scena del “pizzica, stuzzica”. Non fosse chiaro il messaggio, la stessa misteriosa Quercia di Herne intorno a cui l’opera trova la sua conclusione era una sorta di scultura componibile affollata di strumenti musicali più o meno “trasfigurati”.
Come si capisce, la riuscita dello spettacolo dipendeva in parte notevole della qualità non solo musicale dell’orchestra, chiamata a una presenza scenica fondamentale oltre che a una “elasticità” esecutiva tale da farla andare oltre le difficoltà logistiche, con numerose parti chiamate a suonare solo intuendo il gesto del direttore. E riuscita piena è stata, con la Budapest Festival Orchestra sugli scudi per qualità timbrica, compattezza e articolazione degli insiemi, omogeneità complessiva. La sintonia con il direttore-fondatore Iván Fischer è parsa istintiva, profondamente musicale, eloquente. Uno strumento perfetto per la linea interpretativa di Fischer, improntata ad una estroversa chiarezza di spirito mozartiano nei tempi e nelle dinamiche, ma anche a una densità di colore e di espressione capace di delineare bene la complessità dell’ultimo stile di Verdi. Su tutto, la virtuosistica precisione del fraseggio, lucida anche nei momenti più concitati, straordinaria nella trasparenza dell’ardua tessitura polifonica delle celebre Fuga conclusiva, “Tutto nel mondo è burla”.
La compagnia di canto (abbigliata spiritosamente dalla costumista Anna Biagiotti: anni Cinquanta le donne, stile popolare caricaturale per il protagonista) ha mantenuto quello che lo “standing” internazionale dei nomi prometteva, non senza il valore aggiunto dell’equilibrio, che non era così scontato nella presenza di tante stelle sulla scena. Ambrogio Maestri è oggi il Falstaff per antonomasia del mondo operistico e si è capito perché: piega la sua voce torrenziale a un’interpretazione sofisticata, ricca di sfumature fra il parlante e l’arioso, teatralmente e musicalmente esente dalla maniera, eppure capace di andare in profondità nella rassegnata cialtroneria, che è il carattere più autentico del formidabile personaggio inventato da Shakespeare e “adottato” da Verdi alla fine della sua carriera. Tassis Christoyannis ha disegnato il personaggio di Ford – marito che teme il tradimento coniugale – con vocalità di immediata efficacia drammatica, ricca di una risentita energia nella pienezza del suo timbro baritonale, mentre il tenore Xabier Anduaga ha affidato all’innamorato Fenton una linea di canto elegante ed espressiva. Intorno a loro, efficacemente paradossali, sorta di versante elisabettiano di certe maschere della Commedia dell’Arte, si sono mossi con grande scioltezza i vari Francesco Pittari (Cajus), Stuart Patterson (Bardolfo) e Giovanni Battista Parodi (Pistola). Brillante ed equilibrato il quartetto delle voci femminili, con Eva Mei nei panni di un’Alice spiritosa e astuta, Laura Polverelli in quelli di una Meg Page di ben misurata ironia, Yvonne Naef a dare spessore alla parte di Quickly, senza mai andare oltre le righe della caratterizzazione, ma giocando bene tutte le carte vocali che Verdi le affida. Infine, ottima anche Sylvia Schwartz, una Nannetta sospirosa e delicata, con acuti ben timbrati e morbidi.
Teatro al gran completo, numerosi applausi a scena aperta e alla fine accoglienze trionfali, con conclusiva standing ovation indirizzata soprattutto, è parso, a Iván Fischer.
Cesare Galla
(12 ottobre 2018)
La locandina
Direttore | Iván Fischer |
Regia | Iván Fischer e Marco Gandini |
Impianto scenico | Andrea Tocchio e Róbert Zentai |
Costumi | Anna Biagiotti |
Luci | Tamás Bányai |
Personaggi e interpreti | |
Sir John Falstaff | Ambrogio Maestri |
Ford | Tassis Christoyannis |
Mrs. Alice Ford | Eva Mei |
Nannetta | Sylvia Schwartz |
Mrs. Meg Page | Laura Polverelli |
Mrs. Quickly | Yvonne Naef |
Fenton | Xavier Anduaga |
Dr. Cajus | Francesco Pittari |
Bardolfo | Stuart Patterson |
Pistola | Giovanni Battista Parodi |
Budapest Festival Orchestra | |
A’ la c’ARTe Choir & musici di Budapest Festival Orchestra coro | |
Maestro del Coro | György Philipp |
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