Vicenza: senza il prologo Ariadne è metà-teatro

Il teatro mette in scena sé stesso e la sua ritualità. Il mito antico si rispecchia nell’ambiguità della rappresentazione, e i suoi motivi di fondo conoscono la crisi del dubbio. I generi stessi della tradizione si sovrappongono e si confondono: tragedia e commedia s’intersecano, lo spirito della farsa illumina l’aulica mitologia del mondo classico. E sul piano musicale, nell’affascinante quanto sottilmente inquietante rivisitazione delle origini, l’opera riscopre la tranquilla indifferenziazione degli stili, riaccoglie la composita, esuberante vivacità di una scrittura che passa con naturalezza dal comico al drammatico senza timore di mostrare il grottesco.

Nel geniale Prologo di Ariadne auf Naxos, la modernità acuminata e raffinata di Hugo von Hofmannsthal e la duttilità del gesto creativo di Richard Strauss trovano esiti di un’attualità perfino sconcertante. Il punto naturalmente non è solo quello del “teatro nel teatro”, per quanto giocato con leggerezza sofisticata davvero coinvolgente (ma bisogna tenere pur conto che in quest’opera – Vienna, 5 ottobre 1916 – siamo ancora in territori incontaminati dal vezzo culturalistico e dalla maniera). Il punto è la riscrittura del mito nella prospettiva del suo rovesciamento filosofico, quanto a contenuti “morali”, e nello svelamento della sua essenza generatrice di ogni teatralità.

Musicisti e cantanti, ballerini e guitti si mettono in gioco sotto la spinta della demiurgica volontà di chi li ha ingaggiati (la scena si svolge “in casa di un gran signore”), che pretende e impone di mescolare le carte. Il confronto è sostanziale, anche drammatico, ma vissuto con la consapevolezza che il gioco delle maschere ha un significato e nello stesso tempo è un significato, proprio come il tema mitico dell’amore e della fedeltà oltraggiata può essere rovesciato senza che perda la sua capacità di parlare al nostro cuore. È una piccola gemma insieme narrativa e drammaturgica, quella che Hofmannsthal realizza, e ad essa Strauss unisce la sua scrittura musicale di straordinaria chiarezza, nella direzione di “un’opera non wagneriana, giocosa, sentimentale, umana”. Si afferma così uno stile che guarda al passato senza esserne condizionato, riconosce la tradizione senza farne un’ideologia estetica, in nome dell’autonomia dell’artista.

Rinunciare al Prologo, come fa Iván Fischer nella produzione dell’Ariadne auf Naxos, approdata al teatro Olimpico per il Vicenza Opera Festival dopo essere stata proposta la scorsa estate al Festival di Spoleto, rappresenta dunque una sfida complessa, anche al di là delle pur importanti questioni storico-filologiche, nelle quali del resto il direttore ungherese ha avuto una formazione di tutto rispetto con un maestro come Nikolaus Harnoncourt, uno dei primi protagonisti delle esecuzioni “storicamente informate”. Fischer sceglie infatti di risalire, almeno concettualmente, alla versione originale di questo lavoro, che debuttò a Stoccarda il 25 ottobre 1912, con la regia di Max Reinhardt. In quell’occasione, la prima parte dello spettacolo non era il Prologo della versione definitiva, ma consisteva in una rappresentazione – peraltro scorciata a cura dello stesso Hofmannsthal – del Bourgeois gentilhomme di Molière. In questo allestimento, il direttore ungherese opta invece per una scena di nuovo conio, per la quale utilizza le musiche originariamente scritte da Strauss per la commedia dell’autore francese e in seguito riunite in una Suite orchestrale ad uso concertistico.

In questa scena, le maschere della Commedia dell’Arte italiana, che poi si vedranno nell’opera, danno vita a una pantomima (curata dalla co-regista e coreografa Chiara D’Anna) nella quale in alcuni momenti si possono collegare le situazioni molieriane e le relative musiche di Strauss (la scena con il maestro d’armi o con il sarto, ad esempio), mentre in altri prevale il gioco improvvisatorio, con ogni evidenza accuratamente progettato. Nell’insieme, lazzi e frizzi finiscono per risultare un po’ “patinati”, di maniera, anche ripetitivi lungo i 40 minuti della durata di questa parte dello spettacolo. Essi in realtà hanno un ruolo fondamentale nella realizzazione di uno dei punti salienti della visione di Fischer in quanto regista d’opera: il coinvolgimento della sua Budapest Festival Orchestra, la partecipazione degli strumentisti non semplicemente con la loro presenza sul palcoscenico, ma grazie a una reale interazione con tutti gli altri protagonisti dello spettacolo. Al gioco partecipa anche il direttore stesso, che si lascia mettere in testa un buffo cappelluccio e rivestire con un mantello, accettando perfino – per qualche istante – di guidare l’esecuzione da sdraiato.

Resta il fatto che una simile scelta esecutiva, oltre a sottrarre al pubblico la parte drammaturgicamente e musicalmente migliore di Ariadne, ha l’effetto di rimuovere la componente metateatrale, imbevuta di sapiente ironia, che è elemento decisivo del fascino sottile del lavoro di Hofmannsthal-Strauss nella sua versione definitiva. Fascino che non si saprebbe definire meglio di come fece Ferruccio Busoni: “Un’ammirevole facilità a complicare le cose”.

Finito il gioco delle maschere, che molieriano non è, ma se non altro è straussiano, si passa quindi bruscamente all’isola di Nasso, dove prende vita il confronto fra la principessa Arianna, disperata per essere stata abbandonata da Teseo, e la maliziosa Zerbinetta, deliziosa fanciulla di facilissimi costumi, che espone la sua filosofia in una celebre Aria di bravura conclusa da un Rondò irto di acrobazie vocalistiche, pezzo favorito per generazioni di soprani di coloratura.

In realtà, rispetto al Prologo nell’opera vera e propria il rigore adamantino e la perfezione del connubio fra scrittore e musicista si appannano un po’. Da un lato, Strauss si muove fra belcantismo di ascendenza barocca e monumentalità sentimentale ancora condizionata dal verbo wagneriano, anche se a ben vedere questa ecletticità, questa mancanza di punti di riferimento assoluti sul piano dello stile e dell’espressione rappresenta la vera essenza di un lavoro come Ariadne auf Naxos. Dall’altro, la lucidità della visione di Hofmannsthal appare in certo modo condizionata dall’ambiguità sostanziale in cui si muove la protagonista in titolo, il cui desiderio di morte è equivocato dal suo salvatore inconsapevole, Bacco. E le perorazioni “umane” e pratiche di Zerbinetta, la sua proclamata teoria sentimentale del “chiodo scaccia chiodo” e la sua concezione molto sfumata della fedeltà, finiscono per rimanere fini a sé stesse. In certo modo niente più che decorative, proprio come decorativa è la vocalità che caratterizza il personaggio.

Dal punto di vista scenico, sul palco dell’Olimpico allargato a coprire anche la platea e rivestito di nero (interessante l’effetto di contrasto con il chiarore della monumentale “frons scenae” palladiana), sono stati collocati pochi elementi dipinti, leggeri e facilmente maneggiabili, a rappresentare un mare ondoso  (le scene sono di Andrea Tocchio, con dichiarata fonte di ispirazione nell’arte di Lele Luzzati) e l’isola rocciosa di Nasso secondo un immaginario favolistico, giustamente non privo di ironia. Sistemata larga parte dell’orchestra fra le onde, sull’ideale spiaggia davanti al maestro si è svolta quasi tutta l’azione. Una pedana alle spalle degli strumentisti ha permesso ulteriori spazi di movimento e azione alle Maschere, radunate quasi sotto l’arco centrale per assistere alla “rinascita” di Arianna, che nell’ultima scena scambia Bacco per il dio incaricato di accompagnarla nell’oltretomba, ma poi scopre che invece è un giovane messaggero d’amore.

Decisiva, come sempre negli spettacoli della Iván Fischer Opera Company, la raffinatezza dei costumi di Anna Biagiotti, che ha lavorato con efficacia sulle differenze di registro espressivo e stilistico delle parti che si susseguono nella vicenda. Il clou nella gran scena di Zerbinetta, scandita attraverso una svestizione-rivestizione con la quale il personaggio in certo modo nobilità sé stesso e si avvicina all’immagine di una primadonna da melodramma. Salvo poi abbandonarsi nuovamente ai suoi ammiccamenti erotici con le Maschere, che sono il suo mondo.

Al di là dell’opinabilità delle scelte di Fischer rispetto alla tradizione esecutiva, questa Ariadne auf Naxos è risultata tuttavia vincente dal punto di vista musicale.

La Budapest Festival Orchestra ha confermato di essere formazione composta da superbi solisti animati da un encomiabile ed efficacissimo senso del fare musica insieme. Tutti sono parsi eccellenti nel dare il più appropriato peso espressivo al raffinato gioco timbrico ideato da Strauss, nel misurare il fraseggio con dinamiche ricche di dettagli, nel rendere con plastica evidenza l’idea dell’ampiezza stilistica della partitura, nella quale le allusioni effettivamente antiche, nella Suite specialmente alla maniera di Lully (l’autore delle prime musiche per il Bourgeois gentilhomme) si intersecano nell’opera con una notevole messe di citazioni specifiche di autori come Beethoven (il tema del Finale della Sesta Sinfonia), di Mozart (la Sonata per pianoforte K. 331), di Schubert (il Wiegendlied op. 98 n. 2). Come sempre, Fischer è stato decisivo grazie al suo gesto “parlante”, al rigore di una lettura di sempre fascinosa profondità musicale, alla brillantezza istintiva e comunicativa del suo far musica. Tutte caratteristiche emerse con affascinante immediatezza anche nel concerto sinfonico con la BFO proposto dal festival vicentino fra le repliche dell’Ariadne, interamente dedicato a Brahms, con il Concerto per violino (solista Veronika Eberle) e una Terza Sinfonia per una volta non così “autunnale” come certa tradizione interpretativa vorrebbe.

Di alto livello il cast vocale. Il trionfo alla fine è toccato – come di prammatica data la brillantezza della parte – al soprano Anna-Lena Elbert, Zerbinetta, che ha risolto la sua Aria di bravura con la comunicativa, la precisione e l’agilità necessarie, solo mostrando una trascurabile incertezza nella chiusa sovracuta dell’acrobatico Rondò; e che ha sciorinato anche una decisiva verve attoriale.

Assai ben equilibrati e sempre secondo una linea di canto adeguatamente espressiva i quattro interpreti delle Maschere, Gurgen Baveyan (Arlecchino), Stuart Patterson (Scaramuccio), Daniel Noyola (Truffaldino) e Juan de Dios Mateos (Brighella), e bene anche l’estatico trio formato da Naiade (Samantha Gaul), Driade (Olivia Vermeulen) ed Eco (Mirella Hagen), tutte voci molto educate ed eleganti.

Nelle due parti serie, migliore impressione ha suscitato il tenore Andrew Staples, Bacco, protagonista di una prova ragguardevole per tenuta e precisione in una parte di forte tensione ironicamente eroica.

Meno convincente il soprano Emily Magee, un’Arianna a suo agio più nella zona centrale della tessitura – risolta con fraseggio in bello stile e buone sfumature timbriche – che in quella acuta, non sempre controllata al meglio nell’emissione. Onnipresenti gli attori Utka Gavuzzo e Camilo Daouk, che hanno rinforzato la pattuglia dei comici e sottolineato il senso liberatorio e gioioso che Iván Fischer attribuisce a quest’opera, anomalo capostipite della modernità.

Cesare Galla
(24 ottobre 2024)

La locandina

Direttore Iván Fischer
Regia Iván Fischer e Chiara D’Anna
Scenografia Andrea Tocchio
Costumi Anna Biagiotti
Luci Tamás Bányai
Motion graphics Flaviano Pizzardi
Personaggi e interpreti:
Bacco Andrew Staples
Zerbinetta Anna-Lena Elbert
Ariadne Emily Magee
Arlecchino Gurgen Baveyan
Scaramuccio Stuart Patterson
Truffaldino Daniel Noyola
Brighella Juan de Dios Mateos
Naiade Samantha Gaul
Driade Olivia Vermeulen
Eco Mirella Hagen
Attori, mimi, ballerini Utka Gavuzzo, Camilo Daouk
Budapest Festival Orchestra

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