Vicenza: una Konzertmeisterin per la OTO

A cent’anni dalla prima rappresentazione (Parigi, 15 maggio 1920) il Pulcinella di Stravinskij continua a essere un caso piuttosto particolare. Beninteso, l’effetto sorpresa – che sconcertò pubblico e critica all’epoca – non è da tempo un problema. L’ascoltatore avvertito di oggi, forte della sedimentazione storica garantita dal trascorrere degli anni, non deve fare i conti con quella che allora apparve come una improvvisa “virata” stilistica: dai furori modernisti e “russi”, che avevano garantito al loro autore grande notorietà, alla rassicurante visione del Settecento italiano, incarnato nell’arte di Giovanni Battista Pergolesi.

E può permettersi di avere una propria personale graduatoria di apprezzamento rispetto all’arte di un musicista che ha attraversato i primi settant’anni del Novecento senza rinunciare a nulla di quanto il linguaggio musicale andava esplorando. Si sa, c’è chi allo Stravinskij “neoclassico” preferisce quello “russo”, o magari quello americano, o quello che avvicinò alla tecnica seriale…

Si vuole dire che nessuno oggi si sognerebbe di accusare Stravinskij di mancato “rispetto” nei confronti di Pergolesi come avvenne nel 1920. Che poi – ma non cambia nulla – è Pergolesi solo in minima parte, come si sono incaricati di dimostrare da qualche decennio a questa parte gli studi musicologici, visto che i “punti di partenza” stravinskiani sono risultati in larga parte apocrifi e opera semmai di autori pochissimo conosciuti come Domenico Gallo o Unico Wilhelm van Wassenaer.

Ma ciò non toglie che questo Pulcinella un certo impalpabile “disagio”, sottile eppure ben avvertibile, continui ugualmente a crearlo. Perché è vero che Stravinskij – peraltro accogliendo un input del suo mentore parigino Djagilev, l’impresario dei Balletti Russi – decise di cambiare linea, per così dire, lanciando uno approfondito sguardo al passato.

Ma è anche vero che allo stesso tempo – lo confessò egli stesso a trenta-quarant’anni di distanza in una delle tante conversazioni con il suo collaboratore americano Robert Craft – egli indugiò a lungo anche davanti allo specchio. Così, non diversamente da quanto avviene nella vicenda del balletto coreografato originariamente da Léonide Massine (scene e costumi di quello spettacolo del 1920 erano di Pablo Picasso), ma a buon diritto anche nella musica “pura” della Suite da concerto, Pulcinella è una sorta di trompe-l’oeil: un ingannevole gioco di prospettive sonore condotto con mezzi apparentemente semplici, eppure combinati in modo da consentire letture stratificate, divergenti, fuorvianti. Della musica antica rimangono la cornice melodica (peraltro spesso e volentieri deformata) e la sua linea del basso. Ma tutto il resto è libero gioco di invenzione: ritmo, tempi, colori di assoluta modernità. L’armonia sembra rispettata quanto meno nella generale diatonicità, eppure subisce anch’essa non solo scarti espressivi di notevole peso, ma soprattutto diffrazioni generate dalla sovrapposizione delle tonalità. Che a sua volta si rispecchia nella molteplicità ritmica delle parti, accentuata in particolare verso la fine.

Insomma, anche se dopo cent’anni questa musica non dovrebbe sorprenderci per nulla, invece un po’ ci spiazza. Ci blandisce con la sua eleganza e la sua apparente semplicità e poi ci conduce in zone che tanto semplici non sono, se non altro perché sono affollate di un’ambiguità che oltre le semplificazioni delle etichette stilistiche è il più autentico e costante connotato creativo di Igor Stravinskij, uno dei maggiori “ingannatori” del Novecento musicale.

Come si può capire, per un’orchestra Pulcinella è dunque un banco di prova insidioso: richiede uno spiccato virtuosismo strumentale praticamente in tutte le parti, doti solistiche improntate alla brillantezza e all’ironia, ma anche e soprattutto un gioco d’insieme tanto più complesso quanto più deve risultare articolato, quasi frammentato eppure sempre solido e orientato con precisione. Una bella sfida, insomma, per l’Orchestra del Teatro Olimpico, che proprio con questo Stravinskij ha inaugurato al teatro Comunale di Vicenza il suo 2020 (era il terzo appuntamento della stagione, tacendo del “gran concerto” di San Silvestro).

Per l’occasione da Berlino è arrivata a tirare le fila dell’esecuzione e soprattutto a coordinare la preparazione la violinista Antje Weithaas, che non ha mai abbandonato il fido archetto assumendosi quindi il ruolo di “konzertmeisterin”, di concertatrice senza podio.

E per sottolineare il suo ruolo di “prima inter pares”, ha voluto che tutti i giovani della OTO suonassero in piedi, come avviene in genere nelle piccole orchestre da camera.

La singolarità della disposizione non ha influito sul risultato: in Stravinskij il suono è stato corposo quando necessario, molto coeso e soprattutto duttile, articolato nelle dinamiche, sfumato nei colori. In bella evidenza gli archi, con una menzione speciale per i contrabbassi, ai quali nel sottofinale tocca un vero e proprio exploit solistico. Ma positivi anche tutti i fiati, sia i legni che gli ottoni. E se il trombone è parso, nelle celebri volate con glissando che lo affiancano appunto al contrabbasso, forse un po’ “timido”, comunque la precisione non è mai venuta meno.

Dopo l’iniziale finestra sul Novecento, una scelta di programma qualificante musicalmente e culturalmente, la serata è svoltata nella più abituali regioni del Classicismo viennese con il Concerto per violino K. 219 di Mozart e quindi si è conclusa all’insegna del poetico garbo di Schubert diciassettenne alle prese con la forma sinfonica.

Il Concerto ha visto la OTO, ben inquadrata nella definizione di suono e di fraseggio, dialogare efficacemente con il violino solista di Antje Weithaas, protagonista di un’interpretazione nitida, non priva di sapide accentuazioni chiaroscurali risolte con misura stilistica sostanzialmente appropriata, sottolineate dal bel suono del suo strumento, realizzato una ventina di anni fa dal liutaio Stefan-Peter Greiner, particolarmente persuasivo nella zona centrale della tessitura.

Quanto a Schubert, Weithaas è sembrata incline soprattutto a sottolineare una certa quale giovanile irruenza della Sinfonia n. 2, riletta con tempi nei movimenti estremi alquanto rapidi, ma senza perdere alcun dettaglio e regalando agli strumenti a fiato l’evidenza che la partitura offre loro, specie nelle Variazioni del secondo movimento.

Pubblico numeroso ma non da tutto esaurito, accoglienze molto calorose, piccolo bis appunto con una delle Variazioni che costituiscono l’Andante della Sinfonia schubertiana.

Cesare Galla
(13 gennaio 2020)

La locandina

Direttore e violino Antje Weithaas
Orchestra del Teatro Olimpico
Programma:
Igor Stravinskij Pulcinella, suite da concerto
Wolfgang Amadeus Mozart Concerto per violino n. 5 in La maggiore K 219 “Türkish”
Franz Schubert Sinfonia n. 2 in Si bemolle maggiore D.125

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