Vick, l‘antiretorica all’opera
La banalità dilagante fa scialo dell’aggettivo “visionario” per definire un innovatore o un autentico creativo nel mondo dello spettacolo. In queste ore, è facile trovare il termine, sui giornali o nei siti Internet, vicino al nome di Graham Vick, il regista inglese morto sabato a Londra per complicazioni collegate al Covid. Eppure, chi ha visto qualche spettacolo di Vick sa benissimo che non era affatto un “visionario”, qualsiasi accezione si voglia dare alla parola. Era un creatore di immagini di formidabile efficacia e un costruttore di universi drammaturgici che sapeva andare al cuore dei lavori di cui affrontava la messinscena, regalando al pubblico la concretezza del suo sguardo, spesso rivelatorio, con un’immediatezza nelle tesi e nelle loro realizzazioni che non lasciava alternative: la noia, l’insipidezza e la sciatteria non erano contemplate. Ci si poteva anche indispettire, ma era impossibile restare indifferenti. E spesso si restava conquistati
La scomparsa del regista inglese, che avrebbe compiuto 68 anni il 30 dicembre, è una perdita gravissima per il teatro e specialmente per il mondo operistico, che non riesce a liberarsi dalle speciose battaglie di retroguardia sulla regia, condotte da agguerriti tradizionalisti miopi e conservatori (ne avevamo parlato proprio di recente su Tag43: https://www.tag43.it/opera-teatro-regia-arena-di-verona-nozze-di-figaro-scala/). Di sicuro, Vick è stato fin dall’inizio della sua carriera agli antipodi di queste polverose concezioni perché apparteneva alla benemerita schiatta di chi sa leggere i libretti andando oltre, tenendoli uniti con la musica, raccontando e interpretando al di là della polvere dei secoli. Come tutti gli uomini di puro teatro, non aveva preclusioni di epoca e di repertorio: spaziava dal Settecento ai nostri giorni, ma certo aveva le sue predilezioni. Mozart, ad esempio, con una recente memorabile edizione della trilogia sui libretti di Da Ponte all’Opera di Roma. Ma anche, quand’era poco più che trentenne e sconosciuto ai più, nel 1983, con un Ascanio in Alba al teatro Olimpico di Vicenza, trasformato in una sorta di “sogno vittoriano”: uno dei primi spettacoli a rivelarne in Italia lo straordinario talento. E Verdi, naturalmente: una lunga sfilata di regie per i titoli noti e quelli meno noti (in autunno a Parma si darà il Ballo in maschera che stava preparando in questi mesi). O Wagner, dalla Tetralogia al Parsifal politico del Teatro Massimo di Palermo, che non poco ha fatto discutere all’inizio dell’anno scorso.
Un capitolo particolare è costituito da Puccini: non soltanto con la cruda e anti-retorica Bohème di Bologna, premiata dai critici musicali italiani, (2018, proprio in questi giorni ripresa dal Comunale felsineo) o con la durissima (nel senso che non faceva sconti e colpiva come un pugno allo stomaco) Manon Lescaut co-prodotta dalla Fenice e dal Filarmonico di Verona, uno spettacolo nel quale l’eroina andava a morire non in un deserto ma in una squallido cantiere-discarica. Ma perfino con quell’opera-operetta un po’ irrisolta che è La rondine. In uno allestimento che era il poco rassicurante rispecchiamento della partitura.
Molto speciale è stata la frequentazione di Rossini, se è vero che Graham Vick è stato per oltre un ventennio e fino all’anno prima che si scatenasse l’epidemia uno dei nomi di riferimento del ROF di Pesaro, che giustamente gli dedicherà l’edizione che inizia il 9 agosto. Memorabili il Guillaume Tell dalla parte dei popoli oppressi del 2013 e il Mosè in Egitto di due anni prima, rappresentato in un turbine di polemiche in cui lo si accusava perfino di antisemitismo, quando si trattava invece di un sorprendente quanto implacabile “j’accuse” contro tutte le violenze condotte in nome di qualsiasi religione. Meno decisiva la sua ultima prova pesarese, Semiramide, contestata dal pubblico forse perché puntava su una sofisticata quanto originale chiave quasi psicanalitica.
Nella sua Inghilterra fondatore e direttore artistico della Birmingham Opera Company e a lungo attivo nel raffinato festival di Glyndebourne, molto impegnato nelle attività educative e formative collegate al teatro musicale, Graham Vick aveva nell’Italia una sorta di seconda patria con presenza nei maggiori teatri, da Venezia a Palermo, da Bologna a Firenze, da Milano (ma alla Scala è stato assai meno che altrove) a Roma. Non ha disdegnato di confrontarsi con i grandi spazi della lirica, come l’Arena di Verona o lo Sferisterio di Macerata e sempre ha fatto capire di essere particolarmente attento alla natura popolare di quei luoghi, per molti aspetti adattandovi il suo linguaggio teatrale. Il regista capace di raffinatissime ricognizioni teatrali sul Rinascimento inglese attraverso il filtro del belcanto donizettiano (pensiamo alla sua sontuosa edizione di Anna Bolena, in scena nel 2007 al Filarmonico) solo tre anni prima si era inventato per l’anfiteatro romano di Verona una Traviata autenticamente pop: con allusioni e ironiche comparazioni (specie per un inglese…) alla tragedia di Lady D e con una gigantesca bambola gonfiabile a dominare la scena. Molti anni dopo, nell’estate del 2018, a confermare un taglio politico spesso evidente nelle sue ultime regie, il suo Flauto magico allo Sferisterio aveva portato in scena Sarastro alla guida di una ruspa di salviniana memoria, attorniato da una piccola folla di figuranti con larga presenza di autentici immigrati residenti a Macerata, città all’epoca segnata dagli sconvolgenti episodi razzisti della primavera precedente. Certamente il regista inglese aveva messo in conto l’inutile ira dei rappresentanti locali della Lega Nord.
Un anno prima, nella vertigine barocca del Teatro Farnese di Parma, Vick aveva realizzato uno Stiffelio di Verdi – pure premiato dalla critica – in cui i protagonisti si muovevano di fatto in mezzo al pubblico e quest’ultimo era mescolato con i personaggi, restando quasi sempre in piedi. Un rovesciamento delle coordinate abituali del melodramma che aveva un significato altamente simbolico, e allo stesso tempo costituiva un atto di fede e forniva una traccia pratica sulla strada da seguire per rivitalizzare il “bene culturale” chiamato opera. Un’impresa che oggi, senza più Graham Vick a suggerire percorsi, a scatenare le discussioni – perché non tutto gli è riuscito ugualmente bene, com’era normale che fosse – ma soprattutto ad alimentare benefiche riflessioni, diventa sicuramente un po’ più difficile.
Cesare Galla
Pubblicato originariamente su Tag43, che ringraziamo
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