Víkingur Ólafsson, Rameau e Debussy
L’idea di accostare Rameau e Debussy in una produzione discografica presenta degli aspetti di indubbio fascino.
L’estetica di entrambi gli autori attiene ad una dimensione metafisica, i sentieri che percorre sono vie della mente e dell’anima dai quali la realtà materica è bandita. Per l’uno e per l’altro la ricerca dell’accordo perfetto, dell’armonia straniante, della linea melodica che evochi senza descrivere costituiscono elementi essenziali.
Si cimenta nell’operazione il pluripremiato e acclamatissimo pianista islandese Víkingur Ólafsson – classe 1984 e il cui nome evoca saghe norrene e romanzi fantasy – in un disco pubblicato dalla Deutsche Grammophon e intitolato semplicemente “Debussy Rameau”: il risultato è disastroso.
Il pianismo di Ólafsson sembra appositamente confezionato “pour épater le bourgeois” – già per altro invaghito della copertina pop in cui il solista sembra uno chef televisivo – a partire da una concezione del fraseggio che, eufemisticamente, si potrebbe definire “personale”.
A Rameau e Debussy non si addice la colloquialità da piano bar, che sembra invece essere la cifra interpretativa dell’eroe norreno.
Rameau è stravolto e appiattito tanto che tra Tambourin e Rigaudon non si percepisce differenza alcuna, così come Les Cyclopes sembra la fotocopia de Le Sauvages. Tutto prende un tempo di Allegretto concitato – che fa tanto “barocco” – senz’anima e sostanza, tanto “luminoso” quanto vuoto. La tecnica, per carità, è rimarchevole, ma non è al servizio di nulla se non della superficialità.
Inqualificabile il Debussy vacuo e piacione, i cui impaginati – soprattutto Jardins sous la pluie e Des pas sur la neige, per tacere della Demoiselle élue e Ondine – sembrano qui affidati alle dita e al pedale di una signorina bene che si esibisce la domenica pomeriggio nel salotto di una prozia nubile.
Disco da regalare ad un nemico.
Alessandro Cammarano
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