Il futuro è nel coraggio: Sesto Quatrini, Maddalena Massafra e Opera Futura

Opera Futura nasce dall’idea di tre giovani figure di rilievo sempre maggiore nel panorama musicale e organizzativo italiano: Paolo Petrocelli, Maddalena Massafra e Sesto Quatrini. Il progetto si struttura da subito come una serie di webinar, ma non solo, il cui primo si è tenuto il 5 giugno e ha visto la partecipazione di Fabio Luisi, Jeffrey Schnapp, Daniele Rustioni, Riccardo Frizza e gli stessi Quatrini e Petrocelli, tutti riuniti per riflettere sul futuro del teatro d’opera, tra tradizione e innovazione. E il prossimo webinar, il 24 giugno alle 18.30, dedicato a Leadership, progettazione e creatività, con Francesco Micheli, Eleonora Pacetti, Diva Tommei e Barbara Minghetti, mostra chiaramente la direzione pensata per questa nuova piattaforma. Ma quale futuro aspetta il mondo dell’opera lirica? Sesto Quatrini e Maddalena Massafra concordano su un’esigenza imprescindibile: il coraggio.

  • Sesto, partirei da te: com’è nato Opera Futura?

Opera Futura nasce durante un momento di difficoltà, nel quale siamo rimasti chiusi in casa per tre mesi a pensare e ad assistere ad una moltitudine di webinar e concerti in streaming, non sempre con il miglior rapporto tra qualità artistica e qualità tecnologica. Così abbiamo iniziato a comprendere le difficoltà di un dialogo, musica-tecnologia, che in realtà si applica anche al dialogo con il mondo della finanza, della filantropia, del sociale. E abbiamo iniziato a ragionare attorno alla possibilità di creare qualcosa che facilitasse la ricerca di punti di incontro, di fusione di quei mondi. Per farlo però occorre avere delle idee, forti, strutturate, e laddove un artista non fosse in grado di fornirne, provare a farlo con l’aiuto di persone che se ne occupano in altri contesti. Come potrebbe una persona che cura il marketing per Amazon dialogare con un direttore artistico, con un direttore d’orchestra, con uno strumentista? Questo è uno dei metodi di lavoro di Opera Futura: far partire un dialogo e provare a pensare al futuro, di qui a 50 anni. Perché in tanti stanno parlando di soluzioni a breve o brevissimo termine, tra cui lo stesso Ministro Franceschini, ma stiamo sempre parlando di situazioni di eccezionalità. Tra 20 anni quale sarà il panorama?

  • Quali sono i passaggi di Opera Futura per definire questa visione di futuro?

Uno dei primi passi è iniziare a darci un valore, anche economico! Perché io posso sapere come si dirige Don Carlos, ma poi non ho idea di quali e quanti siano i fondi europei per la musica, non so quale sia il nostro indotto, non so quanti siano a lavorare in questo mondo. E poi mettere insieme cervelli perché riflettano su come rinnovare l’opera, il sinfonico, la prosa. E al contempo chiedersi se l’innovazione tecnologica e l’innovazione in generale siano un semplice feticcio, oppure se possa voler dire saper stare al passo con i tempi o anche saper prevedere il futuro, così come i grandi artisti hanno fatto nel corso della storia. Oggi invece la percezione mia, di Maddalena e di Paolo è che siamo diventati più degli archeologi: io prendo una partitura, cerco l’autografo, confronto, studio il contesto, realizzo delle variazioni, ma questo seppur importantissimo è un lavoro di archeologia musicale. Come possiamo proiettarlo invece in avanti? E parlando da organizzatore artistico, invece, come posso rinnovare il modo in cui strutturo un teatro? Noi tendiamo a prendere sempre il peggio dall’estero, ma dal mondo anglosassone possiamo apprendere molto, ad esempio quale possa essere il ruolo del privato nel mondo culturale. Oggi siamo in un grande momento di crisi, anche per le situazioni in cui versano le Fondazioni, e allora trovare dei nuovi modelli potrebbe forse essere una questione centrale, modelli in cui, pur tenendo sempre ben presente che l’Italia non è l’America e che siamo un Paese con una social policy fondamentalmente socialista in cui lo stato è (per fortuna) importante, un’implementazione di fondi privati è necessaria e andrebbe strutturata con un’apposita legge.

  • Parli di privati, modello anglosassone, indotto economico… Non si rischia di portare tutto troppo sul puro valore economico e sul profitto, trascurando il fatto che la cultura è senza dubbio un’economia, ma non solo quello?

Condivido totalmente ciò che dici e infatti volevo terminare su questo punto: non credo nel finanziamento unicamente privato, perché si rischia di diventare ostaggio dei donor. Però va implementato nel sistema, va aiutato e potenziato, bisogna cercare di favorire l’introduzione di nuovi capitali. Le formule non posso chiaramente essere io a proporle e a studiarle da un punto di vista giuridico, politico e filosofico, però penso sia una direzione possibile, parzialmente intrapresa ma poi lasciata un po’ lì a metà, come molte cose in Italia.

  • Parlando di direzioni da intraprendere, quale sarà secondo te la direzione che l’opera lirica intraprenderà in futuro?

Me lo sono chiesto anche nel webinar: è una domanda cui bisogna dare risposta e Opera Futura chiaramente non ha ancora gli strumenti per farlo, però può fungere da piattaforma e da acceleratore per questa riflessione. Uno dei punti centrali secondo me è il rapporto tra compositori e interpreti: Giuditta Pasta nell’800 aveva Rossini che scriveva per lei, lo stesso vale per la Malibran o per i tenori verdiani. Ad esempio, Mariella Devia non ha avuto grandi compositori che scrivessero a stretto contatto con lei e per lei. La domanda provocatoria, allora, è la seguente: È Mariella Devia ad avere delle resistenze verso la musica d’oggi o la musica d’oggi a non parlare più agli interpreti?

  • a parlare solo agli interpreti specializzati nell’ambito.

Esatto. Ma in realtà anche su quello c’è un’altra riflessione da fare. Ligeti ha scritto Le grand macabre oltre 30 anni fa, ma la vera interprete è Barbara Hannigan, oggi, di nuovo con uno sguardo a posteriori. Invece penso che si debba produrre opere con molto più coraggio e non solo delle direzioni artistiche, ma anche riguardo agli aspetti strettamente musicali. Gli interpreti dovrebbero collaborare molto più da vicino con i compositori e sarebbe opportuno pensare ad una nuova forma d’opera, uno spettacolo 4.0, in cui compositore, librettista, direttore, regista e interpreti possano operare insieme già nella fase embrionale della formulazione creativa. Spesso il compositore è un uomo che vive in un qualche paesino, scrive musica che appartiene unicamente allo specchio delle proprie emozioni soggettive e lavora su un testo fornitogli da un librettista con cui ha avuto ben pochi contatti. Il regista prende quest’opera e la realizza a modo suo, il direttore arriva e la dirige a modo suo, i cantanti arrivano e la interpretano per quanto possono a modo loro. Perché invece non partecipare tutti al processo di creazione? Certo, costa tempo, costa liti, ma non è che Verdi e Puccini non litigassero con i loro librettisti e i loro interpreti.

  • Questa tematica del litigio mi sembra centrale: non per amor di polemica, anzi, ma forse si litiga anche troppo poco. E non parlo di sterili dibattiti sulle colonne di un giornale. Di fronte a chi ti contraddice, anche all’interno delle stesse istituzioni in cui si lavora, si tende spesso ad evitare il confronto e ad isolarsi nelle proprie posizioni, perdendo l’occasione di dialogare, di mettersi in discussione.

Siamo in una fase della storia in cui tutto è ovattato. Ogni discussione animata, che non è certo una tragedia ma magari una semplice discussione tra punti di vista diversi, viene visto come un litigio, come la chiusura di un rapporto, ma non è affatto così. È proprio nella discussione che si genera la scintilla, anche della conoscenza. E non parlo certo solo della musica! Essere animati e animosi sulle proprie posizioni è fondamentale, anche per difendere i propri mondi e per poter al contempo comprendere quelli altrui. E invece c’è questa tendenza all’appiattimento di tutto per seguire quel concetto, che io detesto, di “quieto vivere”. Io non sopporto il quieto vivere, mi piace il vivere intenso. E c’è bisogno di questa intensità.

  • Anche quello del direttore d’orchestra è un ruolo di profondo confronto e compromesso: come lo vedi evolversi, di qui a 20 anni?

Guarda, io credo che la figura del direttore avrà un sorprendente cambiamento tornando al passato. A differenza di molti colleghi non penso che il direttore sia un primus inter pares. Il direttore d’orchestra è un leader, un leader e un trascinatore, deve convincere 80, 100, 200 o anche solo 25 persone con sensibilità musicali alte e altre delle proprie idee, con convinzione e preparazione impeccabili. E invece, soprattutto con i direttori più giovani, la figura è stata un po’ svilita, quasi come se ci si dovesse scusare di avere delle idee personali, che devono certamente essere fondate ma per fortuna possono anche essere molto diverse tra un collega e l’altro. Io non voglio dovermi scusare o chiedere la licenza per interpretare, ho scelto di fare questo lavoro perché credo nelle mie capacità e penso che nel futuro sia fondamentale riprendersi il coraggio, il coraggio di fare delle scelte e di non vergognarsene. Questo non significa certo tornare al “metodo Toscanini”, fortunatamente superato: il direttore dev’essere un uomo educato, preparato e cortese, non un dittatore. Però il ritorno ad un certo coraggio, anche interpretativo, è fondamentale. Un altro aspetto del passato che credo debba tornare è una gavetta che si è un po’ persa: De Sabata, Votto e tanti altri direttori sapevano fare un po’ tutti i mestieri: ciò significa abbandonare un po’ di marketing e tornare a dirigere la banda dietro alle quinte, scrivere le variazioni, lavorare a stretto contatto con il cantante, come mi è capitato di fare seguendo Luisi. So che sono aspetti che possono essere percepiti come noiosi, perché è più divertente prendere 90 aerei all’anno, però bisognerebbe ripensare ad un lavoro di artigianato con più tempo a disposizione.

  • Secondo te questo ritorno al coraggio premierebbe?

Assolutamente, e non solo per gli interpreti ma anche per le direzioni artistiche, come dimostrano alcune veramente illuminate che per fortuna ci sono, in Italia. Nel mondo dell’opera quando si dà tanto, si riceve tanto. Non è così sempre per tutte le arti, ma nell’opera la generosità è spesso ripagata da grande entusiasmo.  Credo altresì che, con coraggio, si debba provare a portare le opere fuori dalle strutture teatrali più convenzionali: bisogna intercettare un pubblico nuovo e diverso, non necessariamente giovane. Invece quando il teatro “esce dal teatro” troppo spesso si cade nella marchetta: il concerto in piazza, all’aperto diventa nazionalpopolare nell’accezione più negativa.

  • Quest’esigenza di saper essere popolari senza essere populisti mi sembra si manifesti lampante anche nella comunicazione. Proprio su questo volevo interrogare te, Maddalena. Quale dovrebbe essere l’equilibrio tra programmazione e comunicazione, nel futuro dell’opera?

La prendo un po’ larga, anche perché ho un background più legato al teatro di prosa e della danza contemporanei: credo che oggi sia fondamentale interrogarsi in primo luogo sul ruolo della musica, del teatro e dell’opera, facendo tabula rasa e chiedendoci quale sia il loro scopo, la loro missione. Nel manifesto di Opera Futura l’abbiamo indicato lo spettacolo come uno scrigno della memoria e al contempo un incubatore di futuro. Questo per me è il punto di partenza per una nuova narrazione, ossia non escludere ciò da cui proveniamo, ma al contempo essere capaci di integrare ciò che abbiamo a disposizione oggi. La domanda dunque diventa: come far interagire un passato da custodire con un presente creativo? Io credo che la tecnologia fine a se stessa non sia la risposta e che capiremo dai fondi che arriveranno dalle istituzioni pubbliche in che scenario ci muoveremo. In quello scenario bisognerà provare ad affrontare con strategie creative, nuove partnership, un maggiore dialogo pubblico-privato, una maggiore interazione tra le diverse arti e i diversi generi e al contempo tra ambiti completamente diversi. E quindi, tornando alla domanda originale, ciò che è da fare non è tanto reimmaginare il dialogo tra direzione artistica e comunicazione, ma partire dal gradino precedente e immaginare un “fare arte” che sia innovativo. Da lì scaturisce automaticamente un diverso dialogo tra i due ambiti che conduca alla creazione di nuove strategie di comunicazione.

  • Hai parlato di interazioni tra diversi ambiti: non ti sembra che comunque in questa direzione si stia già procedendo? Penso ai progetti tra musica e business, come quello di Santa Cecilia con la Luiss.

Sicuramente ci sono già ottime premesse in questa direzione e credo che in tutti i processi rivoluzionari ci sia una fase che precede l’effetto concreto, ossia l’elaborazione di un pensiero nuovo. Siamo in quella che possiamo definire una nuova era, l’era del digitale, un’era in continua evoluzione in cui persino l’essere umano, che ne è il creatore, deve costantemente correre per stare al passo. Però la percezione è di avere sotto le mani delle Ferrari senza avere ancora le capacità di guidarle.

  • E quale dovrebbe essere questo pensiero nuovo?

Partirei da una parola che ha usato Schnapp nel primo webinar di Opera Futura: porosità. Uno degli ingredienti che mancano al mondo della musica classica e che necessitano di essere integrati è proprio questa capacità di essere porosi, di assorbire e restituire, di dare e ricevere, intendendo il luogo di cultura come una piattaforma di creazione e diffusione del sapere. La cultura deve provare ad avere più coraggio. Come dicevamo, ci sono già molti esempi virtuosi in questa direzione, una direzione che per me parte da un dialogo sempre più composito tra i vari linguaggi, cosa che anche solo dieci anni fa non si sarebbe nemmeno pensata. Con “coraggio” non intendo tanto l’inventarsi nell’immediato un format rivoluzionario che sconvolga tutte le aspettative di un pubblico già esistente. Siamo un po’ tutti alla ricerca di un’idea innovativa che possa stravolgere ogni cosa dall’oggi al domani, che possa creare lo spettacolo del secolo. Chiaramente è un’utopia. E allora da cosa possiamo partire? Forse proprio dall’iniziare a comunicare la musica classica e l’opera attraverso canoni estetici che non appartengono al suo mondo. Nella percezione comune la musica classica è un genere d’élite e, per quanto ci siano esperimenti che vanno nella direzione opposta, è ancora così: è innegabile. Il tentativo dev’essere di far dialogare canoni estetici anche completamente slegati dal mondo della classica di oggi: lavoriamo con un materiale che è meraviglioso, ma spesso ci sentiamo in imbarazzo a raccontarlo in un modo nuovo.

  • Non si corre il rischio di premere e comprimere un prodotto pensato per un’altra epoca e un altro pensiero dentro a schemi comunicativi troppo distanti, correndo il rischio di impoverirlo e, paradossalmente, farne perdere perdere il tratto distintivo, rendendolo ancora meno interessante?

Io parto sempre facendomi delle domande e la domanda in questo caso non è “Cosa può il contemporaneo dare alla musica classica?” bensì “Cosa può la musica classica dare al contemporaneo?”. Allora noterai che, semplicemente ma non banalmente, invertendo i due termini l’interazione tra i due ambiti cambia molto. Se ti poni la prima domanda, la tua risposta sarà strumentale al quesito che ti sei posto, dovrai necessariamente trovare degli elementi di contemporaneità e incastrarceli dentro in qualche modo. Se invece inverti i fattori, il risultato cambi! Vai a ragionare cioè sulle esigenze di un pubblico contemporaneo nei confronti di un linguaggio che è universale ma, al contempo, necessita di essere adattato.

  • Forse l’origine di molti problemi sta proprio nel fatto che abbiamo sempre messo al centro di tutto ciò che facciamo la celebrazione del nostro glorioso passato, in cui ogni gesto serve per onorare e servire l’enorme tradizione che ci portiamo dietro.

Esatto. E da questo derivano molti esperimenti falliti: provare a restringere il mondo “della classica” in una gabbia contemporanea rischia sempre di generare risultati pretestuosi, per quello bisogna inventare processi nuovi. E per restare sul tema del “tornare al passato”, mi chiedo: perché dobbiamo scegliere? Perché non possiamo, come istituzioni e come artisti, continuare ad offrire più strade, lasciando che il pubblico decida quella più adatta per sé? Questo succede in quasi ogni ambito, è la semplice legge del marketing: identificare dei target e immaginare delle strategie di comunicazione diversificate per avvicinarli. E allora, certamente, ci possono essere contesti, ambiti, filoni, rassegne in cui un ritorno al glorioso passato, con l’eleganza del vestiario e tutto il ragionamento anche filosofico che vi sta dietro, va benissimo. Ma, al contempo, perché non provare a immaginare canoni diversi? La musica classica possiede un repertorio visivo debolissimo e ristretto, dove ogni spazio di sperimentazione sembra destinato a morire sotto i colpi della tradizione, per paura di essere additato come ridicolo, fuori luogo, forzato. Forse in Italia non ci si sente del tutto liberi di inventare e sperimentare nuovi canoni, per paura del giudizio di un pubblico molto legato alla tradizione; ma è compito di chi organizza, di chi guida i processi e sta al vertice delle strutture continuare a immaginare nuove modalità. Anche abbandonando l’idea che la sperimentazione possa essere riduttiva o addirittura fuorviante rispetto all’esperienza musicale, come se potesse sovrastare l’opera d’arte, ma credo sia ovvio che così non è. La scelta di un colore, di un tema visivo, può forse spingere qualcuno nella fase precedente alla rappresentazione a riconsiderare la propria opinione sull’“anzianità” del messaggio, ma non può certo impedirne la fruizione all’ascolto. Il focus è provare ad adottare anche per la classica delle prospettive di story telling che sappiano attualizzare il messaggio musicale: non per forza tutte saranno vincenti, ma a tentare non si perde nulla e abbiamo molto da guadagnarci. E l’obiettivo di Opera Futura è anche questo: provarci, sporcarsi le mani e mettersi in gioco, con coraggio.

Alessandro Tommasi

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